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Il massacro dimenticato che chiuse l’era della pena di morte: Villarbasse, 1945, dieci vittime e uno Stato spietato

Dal Piemonte alla Sicilia, una rapina sbagliata diventa una strage e consegna alla storia gli ultimi fucilati d’Italia

 'Il massacro della cascina' e gli ultimi fucilati d'Italia

'Il massacro della cascina' e gli ultimi fucilati d'Italia

È una storia sbagliata, cupa, senza redenzione. Una storia che affonda nella nebbia della campagna piemontese del 1945, quando la guerra è appena finita ma la pace non è ancora arrivata. Maurizio Pilotti, al suo esordio narrativo, sceglie di tornare su uno dei delitti più efferati del Dopoguerra italiano con Il massacro della cascina – Villarbasse e gli ultimi fucilati (Giunti, 240 pagine, 15,90 euro), un libro che ricostruisce una strage e il suo epilogo giudiziario, quando lo Stato italiano esercitò per l’ultima volta la pena di morte.

Il luogo è Villarbasse, una ventina di chilometri a ovest di Torino, «uno di quei villaggi della campagna torinese che sono immersi nella storia, ma ancora fuori dalla modernità», come lo definì Giorgio Bocca, che seguì il caso e assistette di persona all’atto finale. La scena si stringe ulteriormente attorno alla Cascina Simonetto, azienda agricola dove il 20 novembre 1945 una cena a base di bagna cauda nella casa padronale del proprietario Massimo Gianoli viene interrotta dall’irruzione di quattro banditi a volto coperto.

Doveva essere una rapina rapida, senza sangue, «una cosa liscia come bere acqua fresca alla fonte vecchia di Mezzojuso». Ma qualcosa va storto. A uno dei rapinatori si sposta il travisamento che gli copriva il volto. È Francesco Saporito, che si scoprirà poi chiamarsi in realtà Pietro Lala, siciliano di Mezzojuso, ex lavorante della cascina, basista e mente del colpo. È riconosciuto. Da quel momento la rapina si trasforma in esecuzione.

La decisione è brutale: eliminare tutti i testimoni. Vengono uccisi Gianoli, l’affittuario con la moglie, domestiche e lavoranti. Dieci persone in tutto. L’unico a essere risparmiato è Pierino, un bambino di due anni e mezzo. I cadaveri vengono nascosti e i banditi si dileguano nella campagna come fantasmi. Passano otto giorni di ricerche infruttuose, errori investigativi e crescente pressione popolare, finché i corpi vengono ritrovati nella vecchia cisterna della cascina, rivelando una strage segnata da particolari macabri.

Pilotti ricostruisce quei giorni con una scrittura avvolgente e mimetica, riportando il lettore in un Piemonte sospeso tra macerie morali e sopravvivenza quotidiana. Ci sono i partigiani che provano a reinventarsi una vita, le attività che lentamente ripartono, le scorciatoie per sfuggire alla fame. Ci sono gli odori, i sapori, i dialetti delle vittime, la bagna cauda e la fritada. E ci sono i carnefici, i quattro siciliani di Mezzojuso, chiamati indistintamente “i napoli”, percepiti come estranei e ostili in una terra che non è la loro.

Al centro della vicenda resta Saporito/Lala, finto scemo di guerra e in realtà freddo pianificatore, che guida un gruppo destinato a entrare nella storia non solo per la ferocia del crimine ma per il suo epilogo. Il racconto, che tradisce il passato da cronista di nera dell’autore, conduce infatti fino alle Basse di Stura, dove gli assassini vengono fucilati. È l’ultima volta che in Italia viene applicata la pena capitale.

Il massacro di Villarbasse non è solo un fatto di sangue. È il punto di incontro tra Nord e Sud, miseria e avidità, giustizia e vendetta. Ed è anche la fotografia di uno Stato che, in un momento di transizione storica, scelse di essere spietato per l’ultima volta.

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