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L'Unione fa la forza
19 Dicembre 2025 - 14:28
Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo
Dai vari quotidiani in queste ore si parla dei Centri sociali in generale come luoghi violenti, di eversione, di ostilità manifesta, tanto nei confronti delle forze politiche più reazionarie (tipicamente quelle della destra neofascista) quanto delle istituzioni in quanto espressione sovrastrutturale del capitalismo italiano.
Quanto leggiamo non è altro che una semplificazione ridicola, però utile alla narrazione di chi ha inteso limitare sempre e comunque gli spazi di costruzione oggettiva di una alternativa a tutte quelle che erano invece i costrutti dati dal mercato, dai governi e dal privato in generale riferiti agli ambiti più disparati della vita quotidiana di ciascuno e di tutti.
Siccome nelle manifestazioni di piazza “quelli dei centri sociali” erano i più rumorosi, i più evidenti, circondati da fumogeni e lacrimogeni, da canti e slogan tutt’altro che dialoganti con chi ha sempre proposto povertà e sfruttamento per lavoratori, lavoratrici, precari, disoccupati e per un disagio più complessivo che è andato via via crescendo, in barba alle promesse salvifiche di un po’ tutti i governi, ecco che questa semplificazione risultata presto facile: centri sociali uguale estremismo, intransigenza ottusa, violenza e, naturalmente, eversione contro i poteri dello Stato.
Che siano le destre a proporre questo revisionismo di una attualità dei fatti facile da conoscere, ma anche altrettanto facile da distorcere, non stupisce. Indigna, ma non stupisce.
Che questa operazione venga a volte condivisa con settori del cosiddetto “progressismo” (vedi il sindaco di Torino) lascia, francamente, interdetti e costringe ad una riflessione ulteriore su come sia possibile che non si operi una distinzione tra ciò che si fa dentro e fuori un centro sociale e ciò che si fa in piazza, in un corteo, lì dove è evidente che gli animi si scaldano, soprattutto se le forze dell’ordine vengono poste nelle condizioni di cercare quel tanto di scontro sociale utile a mostrare all’Italia e al mondo che quelli brutti, sporchi e cattivi sono sempre le ragazze e i ragazzi che rifuggono le convenzioni e le abitudini fondate, il più delle volte, su pregiudizi piuttosto consolidati.
Inutile fare appello al buon senso o alla possibilità di avvicinarsi, da parte della politica di palazzo, alla realtà di strada, a quei veri e propri esperimenti di una alternativa di società tentata in decenni di collaborazioni fattive con i quartieri in cui i centri sociali si trovano: chi è il propalatore della vulgata secondo cui lì ci sono solo le “zecche rosse”, quindi dei parassiti che vivono alle spalle della società stessa, non ha alcun interesse a sapere cosa fa un centro sociale. Vuole cercare esclusivamente dei pretesti per chiuderlo, per marcare ancora di più nell’immaginario collettivo che si tratti di un sito in cui si fumano le canne, si bighellona, si aiutano non prima gli italiani ma tutti gli altri, e così via.
Insomma, i governi sono così buoni, come alcune amministrazioni comunali, mentre i centri sociali sono cattivi.
Ma ecco che dopo la chiusura di Askatasuna, sgomberata di una decina di persone, murate le tubature e interrotte le forniture elettriche, prende vita a Torino un normalissimo corteo di protesta verso il provvedimento deciso dal sindaco dopo che la magistratura aveva detto di sì, che si poteva fare, e dopo, soprattutto, la solerzia del Ministero dell’Internoche, per bocca del ministro stesso, vedeva nel centro sociale in oggetto un covo di violenza.
Bene, io mi sento solidale con i tantissimi giovani e meno giovani che in queste ore presidiano un luogo espressione della democrazia.
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Perché Askatasuna non era niente di tutto quello che ci propinano, come ben sanno i residenti di quel quartiere, lo stabile (abbandonato nel 1980, acquisito dal Comune di Torino e diventato centro sociale nel 1996): dopo appunto tre decenni il patto di collaborazione con le istituzioni locali aveva sancito che si portassero a termine una serie di lavori per migliorare le esperienze sociali e culturali che riguardavano direttamente la popolazione del quartiere Vanchiglia.
Askatasuna ci ha dimostrato in questi anni che può esistere un modo molto differente di affrontare i problemi: soprattutto se ci si dispone a farlo insieme e non singolarmente. La vera logica sociale, civile e morale della partecipazione sta proprio nella condivisione non solo degli spazi, ma pure delle esperienze, delle necessità, di tutti quei bisogni che il mercato e i governi risolvono con provvedimenti economici diretti e con leggi che impongono, mentre un centro sociale si pone come esplicita alternativa a tutto questo.
Askatasuna ha lavorato in questi anni non per sovvertire la democrazia, ma semmai per renderla più concreta, praticamente intesa e non solo formalmente declamata in tanti comizi, presente in ogni dove nelle belle parole di chi promette e mai mantiene.
Ciò non significa che i centri sociali siano dei piccoli eden di un socialismo mancato a livello più globale: sono semplicemente dei ritrovi in cui anche la rabbia ha il suo spazio, e la sua possibilità di essere non confinata in un recinto, bensì di trovare risposte differenti da quelle cui vorrebbe indurla una lotta antisociale, un restringimento delle possibilità di esprimere i propri diritti di critica, di protesta, di opposizione alle politiche iperliberiste che impoveriscono da un lato i già più indigenti e sfruttati, mentre dall’altro foraggiano il riarmo a tutto spiano per combattere guerre che favoriscono esclusivamente le industrie delle armi.
Lo sgombero di Askatasuna ci parla di tutto questo: di una destra che mostra i muscoli e contraddice ancora una volta le fondamenta costituzionali della Repubblica lì dove sta scritto che ognuno è libero di esprimere la propria volontà politica per contribuire alla costruzione della vita tanto nazionale quanto delle comunità più ristrette in cui stiamo. Una destra che vuole limitare sempre di più gli spazi di partecipazione e di costruzione di esempi dell’alternativa di società, indicando il Centro Sociale come luogo dell’eversione.
Chi oggi applaude alla fine dell’esperienza dell’Askatasuna dovrebbe meditare sul fatto che un governo che proibisce di pensarla diversamente pone le premesse per sempre maggiori contenimenti di libertà individuali e collettive.
La chiusura del Centro Sociale torinese è sinonimo di legge e ordine senza interpretazione: valgono le norme e non i bisogni delle persone. Ma quando la maggioranza soffoca i diritti delle minoranze, si può parlare ancora di democrazia?
Il passo breve dalla democrazia all’autocrazia è fin troppo evidente.
Domandiamoci dove stiamo andando.
Se, come credo, i centri sociali rappresentano ancora un presidio di difesa dei valori costituzionali, allora la loro preservazione è utile.
I centri sociali sono una delle espressioni più tipiche del diritto di associazione previsto dall’art. 18 della Costituzione, secondo il quale:
“I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale…”
Askatasuna stava dentro il dettato costituzionale, motivo per cui va sostenuto e difeso.
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