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18 Dicembre 2025 - 22:39
La bara di legno con la scritta Agriculture sfreccia agganciata a un trattore tra colonne di fumo nero e piogge di patate. A Bruxelles, nel quartiere europeo, il giorno del Vertice dell’Unione europea (UE) si trasforma in una scena di conflitto aperto: sirene, copertoni in fiamme, idranti della polizia, uova contro le vetrate dei palazzi comunitari. Il bersaglio è uno solo: fermare l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Mercosur. Dentro gli edifici istituzionali, intanto, rimbalzano le parole del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva: “È il momento del ‘ora o mai più’”. Lula aggiunge un dettaglio politicamente sensibile, raccontando una telefonata con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Non è contraria, è in imbarazzo per gli agricoltori. Mi ha chiesto tempo”. Poco dopo, da Palazzo Chigi arriva una nota che precisa la posizione italiana: “L’Italia è pronta a firmare quando saranno date le risposte necessarie agli agricoltori”. Lo scambio, più di molte analisi, chiarisce la linea di frattura su cui si gioca il dossier commerciale più rilevante dell’Europa contemporanea.
L’accordo UE–Mercosur è un negoziato aperto da oltre venticinque anni. Nelle intenzioni dei promotori dovrebbe creare la più ampia area di libero scambio al mondo per popolazione coinvolta, superando i settecento milioni di persone, con una riduzione progressiva dei dazi su quasi tutte le merci nell’arco di circa quindici anni. L’intesa coinvolge Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, con un ruolo differenziato per la Bolivia, e i ventisette Stati membri dell’Unione europea. Non è solo una questione di tariffe: per molti governi europei l’accordo ha un valore geopolitico, perché viene letto come un argine all’espansione economica della Cina in America Latina e come uno strumento per ridurre alcune dipendenze strategiche in una fase di competizione tra grandi potenze.
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La protesta esplosa a Bruxelles nasce da timori concreti. Gli agricoltori europei temono di essere schiacciati da importazioni a basso costo di carne bovina, pollame, zucchero, riso, soia e miele provenienti da Paesi dove, sostengono, non si applicano le stesse regole su pesticidi, benessere animale, deforestazione e tracciabilità. La loro argomentazione è semplice: se in Europa valgono standard severi e altrove no, la concorrenza non è equa. Le immagini dei trattori che paralizzano la capitale belga durante il Consiglio europeo sono diventate il simbolo di un malessere che attraversa Francia, Belgio, Italia e diversi Paesi dell’Est.
A spingere per una firma entro dicembre è soprattutto Lula. Per il presidente brasiliano, dopo un anno di iniziative diplomatiche e con il Brasile alla presidenza di turno del Mercosur, l’accordo deve chiudersi adesso. Nelle dichiarazioni riprese da numerosi media internazionali, Lula riferisce che Giorgia Meloni non sarebbe contraria nel merito, ma sotto pressione da parte del mondo agricolo italiano e avrebbe chiesto da una settimana a un mese per ottenere garanzie aggiuntive. La risposta ufficiale italiana arriva nello stesso giorno: Palazzo Chigi ribadisce la disponibilità a firmare non appena la Commissione europea chiarirà strumenti e tempi di tutela per gli agricoltori. È una formula che tiene insieme cautela politica e apertura di principio.
All’interno dell’Unione europea le posizioni restano divise. La Francia del presidente Emmanuel Macron guida il fronte dei Paesi che chiedono di rallentare, invocando clausole di salvaguardia più rigide, le cosiddette “clausole specchio”, per imporre agli esportatori del Mercosur gli stessi standard europei, e controlli più severi. A Parigi si sono affiancati, con sfumature diverse, Polonia, Austria, Irlanda e in alcuni passaggi il Belgio. Sul versante opposto, Germania e Spagna sottolineano il valore strategico ed economico dell’intesa per l’industria europea, dall’automotive alla meccanica fino all’agroalimentare di qualità, e avvertono del rischio di far saltare un accordo ritenuto maturo dopo decenni di trattative. In questo contesto, l’Italia è diventata uno degli snodi decisivi.
Per rispondere alle pressioni politiche e alle proteste, Consiglio dell’Unione europea e Parlamento europeo hanno concordato il 17 dicembre 2025 un regolamento sulle salvaguardie agroalimentari legate all’accordo UE–Mercosur. Il meccanismo prevede la possibilità di sospendere rapidamente le concessioni tariffarie e reintrodurre dazi se l’aumento delle importazioni provoca o minaccia danni seri a un settore agricolo europeo. La discussione sulle soglie che fanno scattare queste misure, con ipotesi tecniche che oscillano tra il 10 e il 5 per cento, ha portato a un compromesso pensato per rispondere alle richieste di Roma e Parigi. Resta però una questione di fiducia: molti agricoltori dubitano che, oltre i comunicati, le salvaguardie possano essere davvero rapide e automatiche.
Dal punto di vista economico, l’intesa offrirebbe all’Europa un accesso più stabile a un mercato sudamericano in crescita per automobili, componentistica, macchinari industriali, prodotti farmaceutici, vini e formaggi, con la riduzione di dazi oggi elevati. Per il Mercosur, significherebbe un ingresso più ampio nel mercato europeo per prodotti agricoli e materie prime, mentre le imprese sudamericane potrebbero importare macchinari e tecnologie europee a costi inferiori. Nei capitoli dedicati allo sviluppo sostenibile e alla deforestazione, le parti si impegnano su principi ambientali e di tracciabilità. È proprio qui che si concentrano le critiche, legate alla difficoltà dei controlli lungo le filiere, alle differenze normative su pesticidi e standard sanitari rispetto all’ordinamento europeo e all’effettiva applicabilità degli impegni presi.
La linea italiana si muove su un equilibrio delicato. Giorgia Meloni ha definito prematuro firmare senza un pacchetto di garanzie considerate adeguate e reciproche per l’agricoltura nazionale. La nota di Palazzo Chigi conferma questa impostazione: disponibilità a sottoscrivere l’accordo non appena la Commissione europea chiarirà in modo operativo gli strumenti di tutela. In termini politici, l’Italia non vuole apparire come il Paese che affossa l’intesa, ma nemmeno assumersi il costo di un accordo percepito nelle campagne come sbilanciato. Nelle stesse ore, le principali organizzazioni agricole italiane ribadiscono il loro no a una firma senza salvaguardie automatiche, reciprocità sugli standard e controlli efficaci alle frontiere.
Sul tavolo del Consiglio europeo pesa anche il contesto interno dei singoli Stati. In Francia, dopo mesi di mobilitazioni agricole e un clima sociale teso, Emmanuel Macron non può permettersi di apparire accomodante. In Italia, il rapporto tra governo e mondo rurale è centrale per il consenso politico. A Bruxelles, la Commissione europea, guidata dalla presidente Ursula von der Leyen e dal commissario al Commercio Maróš Šefčovič, considera l’accordo un test di credibilità: rinunciare dopo venticinque anni di negoziati significherebbe, secondo questa lettura, indebolire il peso dell’Europa come attore commerciale globale e lasciare spazio ad altre potenze nelle catene del valore latinoamericane. Anche per questo, fino all’ultimo, era stata programmata una missione in Brasile per la firma, subordinata al via libera degli Stati membri.
Dal lato sudamericano, l’accordo è visto come un’opportunità attesa da una generazione di negoziatori. Le capitali del Mercosur osservano con crescente frustrazione le oscillazioni europee, tra richieste aggiuntive dell’ultima ora, controproposte ambientali percepite come protezionismo e rinvii legati alle dinamiche interne dell’Unione europea. In questo quadro si inserisce la durezza delle parole di Lula, che teme che un fallimento spinga i Paesi della regione ad accelerare su altri tavoli, in particolare con la Cina, o a privilegiare accordi bilaterali più rapidi e meno vincolanti.
I numeri aiutano a inquadrare la posta in gioco. La platea potenziale supera i settecento milioni di consumatori e alcune stime parlano di circa settecentottanta milioni considerando l’insieme dei partner. La riduzione dei dazi riguarderebbe quasi tutte le voci tariffarie, con calendari differenziati e periodi transitori fino a quindici anni per i settori più sensibili. Sono previsti contingenti tariffari per prodotti come manzo, pollame, zucchero ed etanolo, con tetti quantitativi e la possibilità di intervenire se i prezzi interni subiscono crolli improvvisi. È inoltre allo studio una riserva finanziaria europea per attenuare gli shock settoriali e sostenere la transizione delle filiere più esposte, anche se i dettagli restano oggetto di negoziato politico e di bilancio.
Nonostante queste misure, la diffidenza del mondo agricolo rimane alta. Il timore è che le soglie per attivare i blocchi siano troppo elevate o lente, che i controlli su pesticidi e residui non siano davvero applicabili a migliaia di chilometri di distanza, che la tracciabilità legata alla deforestazione resti formale e che alcuni operatori possano aggirare i vincoli passando da Paesi intermedi. È su questi aspetti che il governo italiano chiede risposte chiare e verificabili prima di mettere la firma.
Il 18 dicembre 2025, mentre i leader europei discutono di Mercosur e di altri dossier, dalla gestione degli asset russi al sostegno all’Ucraina, Bruxelles è paralizzata da centinaia di trattori e migliaia di manifestanti. Gli scontri con le forze dell’ordine, che utilizzano idranti e lacrimogeni, segnano una giornata tesa. Davanti al Consiglio dell’Unione europea, gli slogan riassumono il messaggio della piazza: perché importare zucchero dall’altra parte del mondo quando può essere prodotto localmente. È l’immagine di una frattura che va oltre i tecnicismi commerciali.
Resta allora l’interrogativo di fondo: il tempo chiesto dall’Italia servirà davvero a perfezionare le salvaguardie o rischia di trasformarsi in un rinvio che fa deragliare l’intero processo. Chi sostiene l’accordo teme che ogni slittamento apra nuove resistenze e consumi il consenso residuo. I critici ribattono che un meccanismo di tutela solido oggi può evitare costi sociali e politici più alti domani. Il rischio sistemico, segnalato apertamente da Maróš Šefčovič, è che un no definitivo comprometta per anni la credibilità negoziale dell’Unione europea.
Se nei prossimi giorni i governi troveranno una convergenza sulle salvaguardie e sulle clausole di reciprocità, la Commissione europea potrebbe ricalibrare gli allegati tecnici e riportare la firma in agenda, con il successivo passaggio nei Parlamenti nazionali dove previsto. Se invece prevarrà il rinvio, l’ipotesi di una firma a fine 2025, sostenuta da Brasilia, potrebbe sfumare, aprendo a un 2026 incerto e a un possibile riposizionamento del Mercosurverso altre partnership. In ogni caso, il nodo resta lo stesso: conciliare apertura dei mercati, competitività industriale europea e tutela di chi lavora la terra, rafforzando la presenza economica dell’Europa in America Latina senza rinunciare agli standard che definiscono il mercato unico. La telefonata tra Luiz Inácio Lula da Silva e Giorgia Meloni, la nota di Palazzo Chigi e le condizioni poste da Consiglio e Parlamento europeo non sono dettagli di contorno, ma il telaio politico su cui si decide se l’Europa è ancora capace di grandi compromessi. Se davvero sia “ora o mai più” lo dirà il calendario. Di certo, qualsiasi intesa dovrà risultare credibile anche per chi oggi protesta guidando un trattore tra il fumo dei copertoni.
Fonti: Commissione europea; Consiglio dell’Unione europea; Parlamento europeo; dichiarazioni ufficiali di Luiz Inácio Lula da Silva; comunicati di Palazzo Chigi; agenzie di stampa internazionali; media europei e brasiliani.
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