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Buttiamo via il cibo mentre cresce la fame: l’Italia spreca 67 chili a testa e scivola nell’insicurezza alimentare

Il rapporto Oipa–Cursa con la Fao fotografa un Paese diviso: più povertà, più pasti saltati e sistemi di aiuto sotto pressione, con Roma come laboratorio della crisi

Buttiamo via il cibo mentre cresce la fame

Buttiamo via il cibo mentre cresce la fame: l’Italia spreca 67 chili a testa e scivola nell’insicurezza alimentare (foto di repertorio)

Sessantasette chili di cibo sprecato a persona ogni anno. È il dato che pesa come un macigno nella fotografia scattata dal primo volume dell’Osservatorio Oipa–Cursa sull’Insicurezza e la Povertà Alimentare, realizzato con il contributo di diverse università italiane e della Fao, e presentato a Roma alla presenza di Maurizio Martina, vicedirettore generale dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione. Un numero che, preso da solo, dice già molto. Ma diventa ancora più disturbante se affiancato a un’altra realtà che avanza in silenzio: sempre più persone che saltano i pasti, rinunciano alla qualità del cibo o dipendono da reti di assistenza alimentare sempre più fragili.

Il rapporto mette nero su bianco una contraddizione profonda del sistema italiano. Da un lato lo spreco strutturale, dall’altro la crescita di povertà alimentare e insicurezza con effetti che non sono solo sociali, ma anche economici, sanitari e ambientali. Non si tratta più di un’emergenza episodica, ma di un fenomeno diffuso che interroga il diritto stesso al cibo e la capacità delle istituzioni di garantirlo.

L’analisi dell’Osservatorio incrocia dati statistici, letture territoriali e riflessioni sul funzionamento dei sistemi alimentari locali. Al centro ci sono tre fattori chiave: disponibilità, accessibilità e qualità del cibo. Quando uno di questi anelli si spezza, il diritto all’alimentazione diventa fragile, soprattutto per le fasce più vulnerabili della popolazione.

Il focus dedicato alla Città metropolitana di Roma Capitale restituisce un quadro che va oltre la cronaca e diventa paradigma nazionale. Circa un terzo della popolazione vive in aree definite “deserti alimentari”, territori dove mancano punti vendita accessibili e adeguati. Un ulteriore 35% risiede nei cosiddetti “deserti solidali”, zone prive di reti strutturate di aiuto alimentare. Il dato forse più allarmante è quello sull’autosufficienza: soltanto l’1,2% delle persone risulta in grado di garantire a sé stessa un’alimentazione adeguata senza ricorrere a forme di supporto o a rinunce qualitative.

Le periferie urbane emergono come le aree più esposte. Qui le possibilità di scelta si riducono drasticamente, l’accesso al sostegno pubblico è più debole e la vulnerabilità assume un carattere strutturale. Non è solo una questione di reddito, ma di organizzazione dello spazio urbano, di servizi assenti, di distanze che diventano barriere quotidiane.

Il volume, curato da Davide Marino, professore di Economia e Politica Agroalimentare all’Università del Molise e direttore scientifico dell’Osservatorio, insieme a Daniela Bernaschi e Francesca Benedetta Felici, insiste su un punto chiave: l’insicurezza alimentare non è un destino inevitabile, ma il risultato di scelte politiche, economiche e territoriali. E lo spreco alimentare, in questo contesto, non è solo uno scandalo etico, ma l’indicatore di un sistema che produce e distribuisce male, lasciando indietro una parte crescente della società.

Il paradosso italiano è tutto qui: mentre crescono le persone che faticano a mettere insieme un pasto dignitoso, il Paese continua a buttare via quantità enormi di cibo. Due facce della stessa medaglia, che il rapporto Oipa–Cursa consegna al dibattito pubblico senza sconti. Perché parlare di diritto al cibo, oggi, significa guardare in faccia entrambe.

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