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Aborto farmacologico, lo scontro in Piemonte: la Regione ignora OMS e Ministero sulla Ru486

L’Associazione Luca Coscioni contesta la linea della Regione: “Sicurezza paragonabile all’ibuprofene, Cirio ignora OMS e Ministero”

Aborto farmacologico

Aborto farmacologico, lo scontro in Piemonte: la Regione ignora OMS e Ministero sulla Ru486

Il tema dell’aborto farmacologico in Piemonte non è più soltanto una questione sanitaria. È diventato un terreno di scontro politico, istituzionale e culturale, in cui si intrecciano evidenze scientifiche consolidate, norme nazionali, decisioni regionali e, soprattutto, i diritti delle donne. Al centro della polemica c’è la Ru486, il farmaco utilizzato per l’interruzione volontaria di gravidanza, e il rifiuto della Regione di consentirne la somministrazione nei consultori familiari, in regime ambulatoriale, come previsto dalle linee di indirizzo del Ministero della Salute del 2020.

A far deflagrare il caso è stata la risposta del presidente della Regione, Alberto Cirio, a un’interrogazione presentata in Consiglio regionale dalla consigliera del Partito Democratico Nadia Conticelli. Una risposta che non è arrivata dall’assessore alla Sanità, pur presente in aula, ma attraverso una nota dello stesso presidente, nella quale le disposizioni ministeriali vengono definite “inapplicabili” in Piemonte.

Secondo Cirio, le linee di indirizzo nazionali sulla somministrazione farmacologica della Ru486 presenterebbero criticità giuridiche e tecnico-sanitarie, con potenziali rischi per la salute della donna, senza però entrare nel merito di quali siano questi rischi né citare dati scientifici a supporto. Nella stessa nota si afferma che il rifiuto della somministrazione del mifepristone nei consultori piemontesi sarebbe stato semplicemente “notificato al Ministero”, che “non ha sollevato eccezioni”.

Una posizione che ha immediatamente sollevato forti critiche, sia sul piano politico sia su quello scientifico. Per Nadia Conticelli, quanto emerso in aula rappresenta «qualcosa di davvero molto grave», non solo per le conseguenze sui diritti sanitari delle donne piemontesi, ma anche per il metodo adottato. «Le competenze regionali in campo sanitario non possono essere utilizzate in maniera ideologica per negare diritti, paventando anche un certo allarmismo rispetto alle procedure», afferma la consigliera dem.

Il nodo centrale è proprio questo: l’uso dell’autonomia regionale per disapplicare di fatto norme nazionali, senza un confronto pubblico e senza avviare alcuna sperimentazione, come sottolinea Conticelli. «Cirio tira dritto, nessun confronto e nessuna sperimentazione», è l’accusa politica che accompagna la denuncia.

A rafforzare il fronte critico interviene l’Associazione Luca Coscioni, che da anni si occupa di diritti civili e sanitari. Le ginecologhe Mirella Parachini e Anna Pompili, insieme alla bioeticista Chiara Lalli, ricordano che la sicurezza dell’aborto farmacologico è documentata da oltre trent’anni di letteratura scientifica. «La sua sicurezza, secondo l’Associazione dei ginecologi e ostetrici americani (ACOG), è paragonabile a quella dell’ibuprofene, che possiamo comprare senza nemmeno l’obbligo di ricetta», dichiarano.

Un confronto volutamente forte, che punta a smontare l’idea di un farmaco intrinsecamente rischioso. «Cirio parla di potenziali rischi senza fare riferimento ai dati di evidenza scientifica, anzi negandoli», aggiungono. E chiariscono un punto spesso frainteso nel dibattito pubblico: «L’aborto farmacologico è sicuro e un ricovero non necessario non lo renderebbe più sicuro, anzi».

Per comprendere la portata del conflitto bisogna ripercorrere l’evoluzione normativa e scientifica della procedura. L’aborto farmacologico è stato introdotto in Italia nel 2009, con un ritardo significativo rispetto ad altri Paesi, come Francia e Cina, dove era già utilizzato da circa vent’anni. Nel 2019, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha compiuto un passaggio chiave, rimuovendo la raccomandazione della somministrazione sotto stretto controllo medico e ammettendo l’autosomministrazione a domicilio, sulla base di solide evidenze cliniche.

Recependo queste indicazioni, nel 2020 il Ministero della Salute ha aggiornato le linee di indirizzo, stabilendo che la procedura farmacologica può essere effettuata fino alla nona settimana di gravidanza, in regime ambulatoriale e anche nei consultori familiari, con la possibilità di assumere a casa il secondo farmaco. Linee guida approvate dal Consiglio Superiore di Sanità e condivise dalle principali società scientifiche internazionali.

Eppure, in Piemonte, tutto questo viene dichiarato “inapplicabile”. Una scelta che non riguarda solo questa Regione. A livello nazionale, l’accesso all’aborto farmacologico resta fortemente disomogeneo. È formalmente ammesso in cinque Regioni, ma realmente attuato solo in tre. In molte aree, il regime ambulatoriale non è consentito e il ricovero ospedaliero resta l’unica opzione.

Secondo l’Associazione Luca Coscioni, si tratta di una limitazione ideologica, non sanitaria. «Questo significa che le donne non possono davvero scegliere», denunciano, «e che sono costrette a ricoveri inappropriati, inutili e pericolosi». Ricoveri che comportano costi aggiuntivi, un maggiore impatto psicologico e uno spreco di risorse pubbliche, oltre a rappresentare un ostacolo concreto all’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza.

La consigliera Conticelli allarga ulteriormente il quadro, collegando la vicenda Ru486 allo stato dei consultori piemontesi. «Parallelamente la Regione chiude i consultori piemontesi e ne indebolisce le funzioni e le risorse», sottolinea. Una scelta che, secondo l’opposizione, svuota progressivamente uno dei pilastri della sanità territoriale, proprio mentre il dibattito pubblico chiede maggiore prossimità e prevenzione.

Il confronto con altre Regioni rende la posizione piemontese ancora più controversa. Lazio, Emilia Romagna, Sardegna e Toscana applicano le linee guida ministeriali e consentono la somministrazione della Ru486 anche in consultorio. «Quindi per il presidente Cirio queste Regioni mettono a rischio la salute delle donne», osserva Conticelli, evidenziando l’incoerenza di una lettura che isola il Piemonte dal resto del Paese e dal consenso scientifico.

Il rischio, secondo i critici, è che dietro il richiamo a presunti profili tecnici si celi una visione ideologica. «Purtroppo ciò che è veramente a rischio in Piemonte sono i diritti legati alle scelte delle donne», conclude la consigliera dem, «che non solo non vengono garantiti, ma sono piegati a una visione ideologica che contrasta addirittura con le norme nazionali».

È in questo contesto che si inserisce la campagna “Aborto senza ricovero”, promossa dall’Associazione Luca Coscioni, che chiede al Consiglio regionale di approvare procedure chiare, uniformi e definite per l’aborto farmacologico in regime ambulatoriale, garantendo la possibilità di assumere il secondo farmaco a domicilio, come previsto dalle linee ministeriali del 2020.

Il caso piemontese diventa così emblematico di una frattura più ampia: quella tra scienza e politica, tra diritti formalmente riconosciuti e diritti concretamente esercitabili. Una frattura che non riguarda solo l’organizzazione dei servizi sanitari, ma il modo in cui le istituzioni interpretano il proprio ruolo nel garantire l’autodeterminazione delle persone.

Nel silenzio dell’assessorato alla Sanità e nella scelta del presidente di parlare attraverso una nota, senza aprire un confronto pubblico, resta una domanda aperta: fino a che punto l’autonomia regionale può spingersi nel limitare l’accesso a un diritto riconosciuto dalla legge nazionale e supportato da evidenze scientifiche internazionali?

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