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18 Dicembre 2025 - 07:46
Gli Stati Uniti stanno davvero bloccando le petroliere del Venezuela?
Una sagoma scura, a luci di bordo spente, attraversa la notte dei Caraibi. La radio resta silenziosa finché una voce in inglese rompe il fruscio: «Qui United States Coast Guard (Guardia Costiera degli Stati Uniti), fermate i motori e preparatevi all’ispezione». È una scena che nelle ultime ore si ripete nelle acque dove transitano le petroliere dirette da e verso il Venezuela. Tutto nasce dall’ordine firmato il 16 dicembre 2025 dal presidente Donald Trump, che ha imposto quello che ha definito «un blocco totale e completo» contro «tutte le petroliere sanzionate che entrano ed escono dal Venezuela», bollando il Paese come «Stato narco-terrorista». Una formula che alza drasticamente il livello dello scontro: operazioni militari, sequestri in mare, vittime, accuse reciproche di «pirateria di Stato» e un immediato riflesso sui prezzi del greggio.

Il provvedimento non equivale a un embargo generale sul petrolio venezuelano. L’obiettivo dichiarato è fermare le navi già colpite da sanzioni dell’Office of Foreign Assets Control (Ufficio per il Controllo dei Beni Stranieri, OFAC) o legate a reti che trasportano greggio aggirando i divieti. Nel mirino finiscono le imbarcazioni che operano per conto di Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA) ricorrendo a pratiche note agli analisti: cambi di bandiera, spegnimento dei transponder, rietichettatura dei carichi. Washington parla di navi «sanzionate» o «sospette», ma nella pratica l’ordine apre la strada a ispezioni, sequestri e possibili interdizioni anche in mare aperto. È un’escalation rispetto a quanto visto nei mesi precedenti, quando una petroliera era già stata sequestrata al largo delle coste venezuelane e la Casa Bianca aveva annunciato un rafforzamento del dispositivo navale nella regione, descritto come senza precedenti, anche se fonti indipendenti parlano di numeri difficili da verificare.
I mercati hanno reagito subito. Il 17 dicembre 2025 il Brent ha guadagnato oltre il due per cento. Il Venezuela oggi pesa solo per circa l’uno per cento sulla produzione mondiale, ma ogni interruzione delle rotte caraibiche aumenta il premio di rischio: controlli, ritardi e confische incidono sulle catene di fornitura e sulla percezione di stabilità.
Il paradosso venezuelano è noto. Da un lato, secondo la Energy Information Administration (EIA, Agenzia statunitense per l’informazione sull’energia), il Paese dispone di circa 303 miliardi di barili di riserve provate, pari a circa il 17 per cento del totale mondiale, il dato più alto al mondo. Dall’altro, la produzione resta ben al di sotto del milione di barili al giorno, circa lo 0,8 per cento dell’offerta globale. Gran parte delle risorse si trova nella Faja dell’Orinoco, un’area di greggio extra-pesante che richiede tecnologie, diluenti e investimenti che PDVSA fatica a garantire dopo anni di crisi, sanzioni e perdita di competenze. Per questo ogni strozzatura logistica pesa più del previsto: non solo riduce gli incassi, ma blocca anche l’arrivo di diluenti, additivi e pezzi di ricambio necessari a mantenere operativi gli impianti.
Con i mercati occidentali chiusi o fortemente limitati dai regimi sanzionatori, il petrolio venezuelano ha trovato sbocco quasi esclusivamente in Asia. Nel 2025 la quota diretta in Cina ha raggiunto in diversi mesi livelli prossimi o superiori all’80-90 per cento delle esportazioni, secondo i dati di tracciamento marittimo e commerciale. Una parte dei carichi viene rietichettata lungo la rotta, ad esempio come bitume di altra origine, per superare i controlli bancari e assicurativi. Per Pechino si tratta di barili pesanti e scontati, utili soprattutto alle raffinerie indipendenti della provincia di Shandong; per Caracas è una linea di sopravvivenza finanziaria. Un blocco mirato proprio alle petroliere considerate a rischio sanzioni colpisce quindi il principale canale di incasso dello Stato venezuelano, già alle prese con una crisi umanitaria di lunga durata.
Sul piano giuridico, la questione è delicata. Nel diritto internazionale una vera e propria blockade è considerata un atto di forza, che normalmente richiede un mandato delle Nazioni Unite o un conflitto dichiarato. Gli Stati Uniti sostengono di agire contro traffici illeciti e narcotraffico; il governo venezuelano parla invece di violazione della libertà di navigazione. Anche negli Stati Uniti il dibattito è aperto: senza un chiaro via libera del Congresso, l’azione rischia di configurarsi come uso della forza non dichiarato. A questo si aggiunge l’ambiguità della definizione di «Stato narco-terrorista», che non rientra nelle categorie giuridiche tradizionali previste dall’ordinamento statunitense.
Dal 1 settembre 2025 la campagna militare statunitense contro presunti traffici di droga nei Caraibi e nel Pacifico orientale ha colpito numerose imbarcazioni veloci. Secondo stime della stampa internazionale, il bilancio complessivo supera le 90 vittime in oltre venti ingaggi. Il Pentagono sostiene di aver preso di mira mezzi legati a cartelli e gruppi criminali come il Tren de Aragua, ma i dettagli sulle regole d’ingaggio restano limitati. Alcuni episodi controversi hanno spinto membri del Congresso a chiedere maggiore trasparenza. Il blocco alle petroliere si inserisce così in un contesto già fortemente militarizzato.
Un altro tassello è la fine del canale considerato “legale”. Per oltre due anni la multinazionale Chevron aveva operato in Venezuela grazie a una licenza concessa dall’OFAC nel 2022, che permetteva esportazioni limitate verso gli Stati Uniti. Nel 2025 l’amministrazione Trump ha annunciato la revoca della licenza, con una finestra di uscita fino al 27 maggio 2025. La chiusura di questo canale ha spinto ulteriormente PDVSA verso l’Asia e verso circuiti sempre più opachi. Il nuovo blocco rischia di ridurre anche questi margini.
La reazione internazionale non si è fatta attendere. Caracas ha denunciato l’azione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, parlando di furto e pirateria. Il Messico ha chiesto un intervento diplomatico per evitare ulteriori vittime, mentre il segretario generale António Guterres ha invocato una de-escalation. La presa di posizione più netta è arrivata dalla Cina: il ministro degli Esteri Wang Yi ha parlato di «bullismo unilaterale» e ha ribadito il sostegno alla sovranità venezuelana. Con centinaia di migliaia di barili al giorno diretti verso la Cina, il legame energetico tra Caracas e Pechino è ormai un asset strategico.
Nel breve periodo, la stretta non sottrae grandi volumi al mercato globale. Ma il petrolio non reagisce solo ai barili effettivamente persi: reagisce alle aspettative. Il rischio è triplo. Interruzioni logistiche dovute a sequestri e ritardi, possibili ritorsioni diplomatiche o operative e una crescente frattura geopolitica che spinge assicuratori, banche e armatori a ritirarsi per eccesso di prudenza. È un effetto moltiplicatore che può congelare intere catene di fornitura anche in assenza di divieti formalmente chiari.
Negli Stati Uniti il consenso è diviso. La retorica di Trump trova sostegno in una parte dell’opinione pubblica, ma cresce anche la richiesta di chiarire la base legale delle operazioni e il rischio di scivolare verso un atto di guerra non dichiarato. Anche la definizione di Venezuela come «narco-terrorista» appare più una cornice politica che una categoria giuridica compiuta, ma indica la direzione scelta dalla Casa Bianca.
Il nodo centrale resta la Cina. Un blocco selettivo delle petroliere dirette verso l’Asia mette pressione su armatori, assicuratori e intermediari finanziari. Il rischio è una divisione del mercato marittimo tra operatori iper-conformi alle regole occidentali e una flotta ombra sempre più ampia e meno sicura, con effetti su premi assicurativi e costi di trasporto.
Per ora si naviga in equilibrio instabile. Finché l’ordine resterà formalmente limitato alle petroliere sanzionate, lo scontro potrebbe rimanere sotto una soglia critica. Ma se le operazioni continueranno a produrre vittime e il linguaggio politico si tradurrà in un blocco di fatto, lo spazio per una soluzione diplomatica si ridurrà rapidamente. La differenza la faranno i numeri: quante navi fermate, quanti incidenti, quanto tempo prima che i canali diplomatici, da New York a Città del Messico, trovino un punto minimo di intesa.
Fonti: Casa Bianca, Office of Foreign Assets Control (OFAC), United States Coast Guard, Energy Information Administration (EIA), Pentagono, Nazioni Unite, Reuters, Bloomberg, Financial Times, Associated Press, dati di tracciamento marittimo indipendenti.
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