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Afghanistan: crescita per chi? Cantieri, statistiche e censura raccontano davvero una ripresa?

Sotto la vetrina dei grandi progetti e dei numeri macroeconomici, l’economia afghana cresce senza migliorare la vita delle persone, mentre informazione, diritti e investimenti restano bloccati

Afghanistan: crescita per chi? Cantieri, statistiche e censura raccontano davvero una ripresa?

Afghanistan: crescita per chi? Cantieri, statistiche e censura raccontano davvero una ripresa?

A mezzanotte, all’imbocco del tunnel del Salang, il display elettronico scandisce una sequenza di giorni: chiuso dal 19 al 28 ottobre. Camion fermi con i motori al minimo, autisti infreddoliti, file che si allungano tra le gole. Un altoparlante ripete l’ordine: tornare indietro, riprovare domani, seguire il percorso alternativo. In uno dei tratti più strategici dell’Afghanistan, il regime promette grandi lavori e autosufficienza economica. Sul terreno, però, si susseguono chiusure irregolari, deviazioni improvvisate e un commento che ricorre tra chi guida: qui cambiano i cartelli più in fretta dell’asfalto. È una fotografia che sintetizza l’Afghanistan dei talebani: una narrazione di rilancio economico costruita con conferenze stampa, video curati e visite guidate per cronisti stranieri, che convive con una realtà fatta di povertà diffusa, cantieri discontinui e una libertà di stampa sempre più compressa.

Dal ritorno al potere nell’agosto 2021, il governo de facto tenta un equilibrio difficile: restare rigido sui diritti delle donne e sul riconoscimento internazionale, ma apparire affidabile nella gestione economica. Per sostenere questa linea, vengono usati due strumenti principali: statistiche macroeconomiche e grandi opere. Secondo la Banca Mondiale, il Prodotto interno lordo (Pil) è tornato a crescere, con un aumento stimato intorno al 2,5 per cento nel 2024 e una proiezione al 4,3 per cento nel 2025. La spinta arriva soprattutto dall’agricoltura, dalle costruzioni e da alcune attività estrattive, oltre che da una domanda interna gonfiata dal rientro di oltre due milioni di persone dall’Iran e dal Pakistan. Ma la stessa Banca Mondiale segnala che il deficit commerciale continua ad ampliarsi, i redditi pro capite diminuiscono e la crescita non tiene il passo con un aumento demografico stimato tra l’8 e il 9 per cento. Il risultato è un calo del Pil pro capite che potrebbe raggiungere il meno 4 per cento nel 2025. In termini concreti, l’economia cresce sulla carta, mentre la popolazione diventa mediamente più povera.

afghanistan

Le analisi del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) confermano un quadro sociale critico: fino al 75 per cento degli afghani fatica a coprire i bisogni quotidiani. Le restrizioni all’occupazione femminile e all’istruzione hanno un impatto diretto sull’economia, con una perdita cumulata stimata fino a un miliardo di dollari entro il 2026, pari a circa il 5–6 per cento del Pil. Anche i dati umanitari seguono la stessa traiettoria. Il World Food Programme (WFP), ovvero il Programma Alimentare Mondiale, stima che 17 milioni di persone affronteranno condizioni di insicurezza alimentare durante l’inverno 2025–2026, in un contesto di finanziamenti ridotti e programmi di assistenza ridimensionati.

Kabul rivendica intanto un aumento delle entrate fiscali e un’inflazione relativamente contenuta, presentate come prove di uno Stato capace di funzionare senza il sostegno occidentale. Ma quelle entrate derivano in larga parte da dazi e imposte indirette, in un’economia che importa più di quanto produca. L’inflazione moderata non compensa il crollo del potere d’acquisto seguito al congelamento degli aiuti internazionali e all’esclusione di fatto di gran parte delle donne dal mercato del lavoro.

Per rendere credibile questa narrazione, il controllo sull’accesso dei media è diventato centrale. I visti per i giornalisti stranieri vengono concessi in modo selettivo e condizionato. Le autorità chiedono programmi editoriali dettagliati, impongono accompagnatori ufficiali e itinerari prestabiliti, scoraggiando con avvertimenti espliciti i contatti con media in esilio o reti considerate ostili. All’interno del Paese, direttive successive vietano programmi politici in diretta, impongono ospiti approvati e censurano immagini ritenute non conformi ai criteri morali del regime. Secondo Human Rights Watch e il Centro dei giornalisti afghani (AFJC), nel 2025 si è registrato un aumento di arresti, intimidazioni e chiusure di emittenti. Reporters Sans Frontières colloca l’Afghanistan agli ultimi posti degli indici sulla libertà di stampa e segnala detenzioni arbitrarie, in particolare contro chi collabora con media internazionali. Anche casi come la sospensione e la successiva parziale riapertura di Radio Begum, emittente femminile, mostrano una strategia ricorrente: colpire per dare un segnale, riaprire per recuperare consenso. Il risultato è un giornalismo sempre più limitato a eventi ufficiali, inaugurazioni e visite guidate, mentre il resto resta fuori campo.

In questo contesto, il tunnel del Salang è diventato un simbolo. Documenti del Ministero dei Lavori Pubblici parlano di interventi strutturali, chiusure programmate e piani di asfaltatura. Sul terreno, però, emergono racconti di pedaggi informali ai posti di blocco, attraversamenti irregolari e la percezione di un cantiere che non si chiude mai. Ogni fase viene celebrata come un successo nella comunicazione ufficiale, mentre per trasportatori e commercianti ogni stop rappresenta un costo aggiuntivo.

Se il Salang è la vetrina, il canale di Qosh Tepa è l’ambizione strategica. Avviato nel 2022, lungo 285 chilometri, dovrebbe deviare fino al 20–30 per cento delle acque dell’Amu Darya per irrigare oltre mezzo milione di ettari nel nord del Paese. Per i talebani è la prova di una futura sicurezza alimentare. Per Paesi vicini come Uzbekistan, Turkmenistan e Kazakhstan, è un motivo di preoccupazione, perché riduce la disponibilità idrica a valle. Gli esperti segnalano rischi tecnici, come perdite per infiltrazione e problemi di sedimentazione, oltre all’assenza di accordi regionali sulla gestione dell’acqua. La narrativa ufficiale insiste sul fatto che il progetto non danneggerà nessuno, ma le preoccupazioni scientifiche e diplomatiche aumentano.

Sul fronte delle risorse naturali, il 2025 è stato segnato da annunci e retromarce. Accordi presentati con la russa Intecosugli idrocarburi restano generici. È stata invece revocata la concessione venticinquennale alla cinese Afchin per i pozzi dell’Amu Darya, nelle province di Sar-e Pul e Faryab, per presunte violazioni contrattuali. A dicembre, attacchi armati vicino al confine con il Tagikistan hanno ucciso cinque lavoratori della China Road and Bridge Corporation, causando il ritiro di personale e imprese. Episodi che mettono in discussione l’immagine dell’Afghanistan come hub sicuro per gli investimenti regionali.

Anche il progetto TAPI, il gasdotto Turkmenistan–Afghanistan–Pakistan–India, viene spesso rilanciato. A metà 2025 sono stati completati circa 15 chilometri sul territorio afghano, presentati come un passo decisivo verso future entrate per centinaia di milioni di dollari. Ma tra questo tratto e i restanti oltre 700 chilometri restano problemi di sicurezza, finanziamento e governance.

Dietro i dati macroeconomici, le condizioni di vita raccontano altro. La maggioranza delle famiglie è costretta a indebitarsi o a ridurre i pasti. Tra il 2023 e il 2025 sono rientrate nel Paese fino a 4,7 milioni di persone, mettendo sotto pressione scuole, sanità e alloggi. La disoccupazione cresce, il lavoro minorile aumenta e l’accesso al credito per le microimprese femminili resta marginale. Senza gli aiuti di un tempo e con regole che limitano metà della forza lavoro, l’Afghanistan resta fortemente dipendente dall’assistenza esterna.

Un altro pilastro della narrazione ufficiale riguarda la gestione della liquidità. Le Nazioni Unite (ONU) continuano a inviare contanti per sostenere funzioni umanitarie e operative, contribuendo a stabilizzare la valuta. Kabul rivendica un aumento delle entrate fiscali, ma queste si basano soprattutto su tasse al consumo e dazi. La base produttiva è limitata, il credito bancario resta bloccato e il Paese è escluso dai principali sistemi di pagamento internazionali. Senza investimenti privati credibili e senza il pieno utilizzo della forza lavoro femminile, la crescita resta fragile.

Nel 2025 i talebani hanno compreso che senza un’immagine di efficienza economica non ci sono prospettive di riconoscimento e finanziamenti. Hanno quindi affinato il controllo della comunicazione, dei visti e dei cantieri simbolo. Ma i dati su povertà, debito delle famiglie e servizi pubblici suggeriscono cautela. L’Afghanistan non vive una ripresa strutturale, ma una gestione della crisi. Finché la politica economica resterà subordinata alla costruzione dell’immagine, la distanza tra vetrina e realtà continuerà a crescere.

Fonti: Banca Mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), World Food Programme (WFP), Nazioni Unite (ONU), Human Rights Watch, Centro dei giornalisti afghani (AFJC), Reporters Sans Frontières, Ministero dei Lavori Pubblici afghano.

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