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Il piano socio sanitario della maggioranza che non piace alla maggioranza

Tra slogan, tavoli e ospedali sulla carta, il Piano sociosanitario 2025-2030 arriva tardi, senza risorse certe e salvato in extremis dalle opposizioni. Più propaganda che programmazione.

Il piano socio sanitario della maggioranza che non piace alla maggioranza

Conferenza stampa delle Opposizioni

Dopo anni di gestione a vista, di annunci a intermittenza e di rattoppi presentati come riforme strutturali, la Giunta Cirio decide che è arrivato il momento di fare sul serio e porta finalmente in Consiglio regionale il Piano socio-sanitario 2025-2030. A raccontarlo con tono solenne, quasi salvifico, è Federico Riboldi, assessore alla Sanità, che rivendica l’evento come una svolta storica: “Era dal 1995 che il Piano non veniva integralmente riscritto”. Una frase che, più che una medaglia al petto, suona come una clamorosa confessione. Perché se per trent’anni nessuno ha messo mano a un documento di programmazione fondamentale, forse il problema non era il calendario, ma l’assenza cronica di una visione politica della sanità pubblica.

Riboldi la racconta come una grande gestazione collettiva: un anno di lavoro, consulenze “di alto profilo”, 600 audizioni, un confronto “vivace” con le opposizioni. Peccato che il risultato di tanta fatica sia arrivato in Aula zoppicante, corretto all’ultimo minuto, appesantito da oltre 200 emendamenti presentati dalla stessa maggioranza. Un numero che, da solo, basterebbe a smontare la narrazione trionfalistica. Se un Piano ha bisogno di duecento correzioni della stessa maggioranza che lo propone, prima ancora di essere discusso, non è un capolavoro di programmazione: è un documento nato male, rattoppato strada facendo e salvato in extremis dal lavoro in Commissione.

Ma Riboldi non sembra preoccuparsene. Anzi, sfodera tutto il repertorio lessicale della sanità dei buoni sentimenti. Parla di persone “al centro”, di “allontanamento zero dalla sanità pubblica”, di umanizzazione, di accoglienza. Introduce tavoli di lavoro per patologie, figure dedicate al clima umano negli ospedali, perfino un corpo logistico sanitario piemontese affidato al volontariato per accompagnare anziani e fragili. Una sanità che, a sentirla raccontare, sembra quasi un grande abbraccio collettivo. Peccato che nella vita reale la sanità piemontese sia fatta di corridoi pieni, personale allo stremo e cittadini che, quando possono, scappano verso il privato. Altro che “allontanamento zero”: l’allontanamento è già in atto, quotidiano, silenzioso, socialmente selettivo.

Le opposizioni

Conferenza Stampa delle Opposizioni

Il Piano si trasforma così in una lunga lista di buone intenzioni. Undici nuovi ospedali, decine di Case di Comunità, Ospedali di Comunità, Centrali operative territoriali, ristrutturazioni, ampliamenti. Un elenco degno di un programma elettorale permanente, condito da una cifra magica: 5 miliardi di euro. Soldi che dovrebbero modernizzare la sanità, ridurre gli sprechi, attrarre professionisti, smaltire le liste d’attesa, liberare i pronto soccorso. Insomma, fare tutto. Tranne spiegare da dove arrivano davvero queste risorse, come saranno distribuite, in quali tempi e con quali priorità. Perché nel Piano, quando si arriva al dunque, il quadro economico evapora. Non ci sono certezze, non c’è un cronoprogramma credibile, non ci sono indicatori di risultato. Senza soldi e senza tempi, anche l’ospedale più moderno resta un rendering.

È su questo che le opposizioni affondano il colpo. Il Partito Democratico ammette che un Piano fosse necessario, perché la sanità piemontese negli ultimi anni è cresciuta in modo disordinato. Ma è una concessione iniziale, subito seguita da una bocciatura politica. Daniele Valle parla di un documento ancora privo di basi epidemiologiche solide, senza obiettivi chiari e senza risorse definite. Ricorda che approvarlo in estate sarebbe stato un atto di forza e che il Consiglio regionale è stato coinvolto solo dopo, quando il testo aveva già mostrato tutte le sue falle. Gianna Pentenero rivendica che molte delle parti più concrete del Piano sono entrate solo grazie al lavoro dell’opposizione: salute mentale, sanità territoriale, medicina di genere, violenza sulle donne. Ma poi arriva la frase che inchioda Riboldi alle sue responsabilità: obiettivi anche condivisibili, ma zero copertura finanziaria. Senza investimenti veri, il Piano resta un esercizio retorico.

Il Movimento 5 Stelle è ancora meno diplomatico. Sarah Disabato parla apertamente di una Giunta che ha governato la sanità “alla giornata”, senza programmazione, lasciando irrisolti i nodi strutturali: carenza di personale, intramoenia fuori controllo, sicurezza sul lavoro, edilizia sanitaria ferma. Ricorda che molte strutture oggi sbandierate come risultato del Piano esistono solo grazie ai fondi PNRR, non certo per merito di una strategia regionale lungimirante. Anche qui, le correzioni arrivano dagli emendamenti: più controlli, più tutele, più prevenzione. Ma il quadro generale resta quello di una sanità che procede senza una rotta chiara.

Da Alleanza Verdi Sinistra, Alice Ravinale e Giulia Marro parlano senza mezzi termini di un Piano insufficiente e contraddittorio, stravolto da emendamenti che inseriscono centinaia di pagine e cambiano l’impianto originario. Un documento che arriva perfino a contraddirsi sui numeri degli ospedali di comunità. Dettagli, forse, per chi ama i comunicati. Segnali gravissimi, invece, per chi sa che la programmazione sanitaria si misura sui dati, non sulle suggestioni.

Vittoria Nallo, per Stati Uniti d’Europa, va dritta al punto: manca una visione d’insieme. Mancano indicatori, obiettivi misurabili, criteri di scelta. La sanità piemontese continua a navigare a vista e il diritto alla salute diventa sempre più una rinuncia o una spesa privata. Anche qui, le vere innovazioni – screening neonatali estesi, Housing First per i senza dimora, sanità transfrontaliera – entrano nel Piano solo grazie agli emendamenti dell’opposizione. Segno che, senza quel lavoro, il documento sarebbe rimasto ancora più vuoto.

E poi c’è il convitato di pietra, quello che nei discorsi ufficiali compare poco e male: i non autosufficienti. Alberto Deambrogio, di Rifondazione Comunista, parla di una vergogna politica. Le voci di chi sta peggio non sono state ascoltate. Manca una fotografia aggiornata del fabbisogno, mancano riferimenti chiari ai LEA, manca un monitoraggio pubblico delle cure domiciliari e residenziali, manca persino una corretta applicazione dell’Isee. Per una parte fragile della popolazione, il messaggio che emerge dal Piano è brutale nella sua semplicità: arrangiatevi. Altro che sanità “al centro delle persone”.

E così, mentre Riboldi continua a raccontare un Piemonte all’avanguardia, digitale, umano, partecipato, il Consiglio regionale restituisce un’immagine molto diversa. Un Piano arrivato tardi, corretto in corsa, reso appena presentabile dal lavoro delle opposizioni e ancora privo delle fondamenta politiche ed economiche necessarie. Un Piano che promette tutto e definisce poco, che parla di futuro ma non spiega come raggiungerlo, che mette le persone “al centro” solo finché restano parole su carta.

Alla fine, più che un Piano socio-sanitario, quello presentato dalla Giunta Cirio sembra un atto di fede. Un grande racconto autoassolutorio, utile a riempire conferenze stampa e slide, molto meno a rispondere ai bisogni reali di chi aspetta una visita, un’assistenza domiciliare, una presa in carico degna di questo nome. E se davvero questo documento dovrebbe guidare la sanità piemontese fino al 2030, il sospetto è uno solo: non siamo davanti a una svolta storica, ma all’ennesimo esercizio di propaganda, con la sanità pubblica usata come scenografia.

Di chi è il Piano Socio Sanitario?

Povero Federico Riboldi. Assessore alla Sanità, padre ufficiale del Piano sociosanitario piemontese e, a quanto pare, unico a non aver partecipato alla sua riscrittura. Presenta il documento con tono solenne, lo difende come frutto di un anno di lavoro, lo racconta come storico, condiviso, meditato. Poi si gira un attimo e scopre che la sua stessa maggioranza lo sta emendando senza neppure avvisarlo. Non un dettaglio: oltre 200 emendamenti, molti dei quali non concordati con l’assessore che di quel Piano dovrebbe essere l’autore.

È una scena quasi tenera. Riboldi che parla di visione, mentre alle sue spalle il testo cambia forma. Riboldi che rivendica la paternità, mentre la famiglia politica lo riscrive. Non è una revisione: è una sottrazione di tutela.

C’è qualcosa di profondamente moderno in questa dinamica. L’assessore presenta, la maggioranza corregge. L’assessore spiega, la maggioranza integra. L’assessore difende, la maggioranza riscrive. Un Piano che nasce già separato consensualmente dal suo autore, affidato a una gestione collettiva che somiglia più a un’assemblea condominiale che a una cabina di regia politica.

Gli emendamenti, ci tengono a precisare in molti, non sono frutto di un lavoro condiviso con Riboldi. Arrivano, si accumulano, si stratificano. A volte si contraddicono, a volte riscrivono interi pezzi, a volte aggiungono. E lui resta lì, a raccontare un Piano che, nel frattempo, non esiste più nella forma in cui lo ha presentato. Una specie di conferenza stampa su un oggetto in continua mutazione.

Forse è questo il nuovo modello di assessorato: l’assessore come testimonial. Il Piano come bozza permanente.  Non si tratta di sfiducia, ci mancherebbe. È solo che, evidentemente, nessuno si fida abbastanza del testo originale da lasciarlo com’è

Alla fine, viene davvero da provare compassione per Riboldi. Non è facile essere il padre di un Piano che cresce senza chiederti il permesso, che viene corretto mentre lo stai ancora spiegando, che cambia direzione mentre parli di visione. Un Piano che la tua maggioranza ritocca, amplia, stravolge come se tu fossi un dettaglio del processo, non il suo autore.

Povero Riboldi. Gli hanno chiesto un Piano sociosanitario e lui lo ha consegnato. Il problema è che, subito dopo, la sua maggioranza ha deciso che era meglio farne un altro. Senza di lui.

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