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16 Dicembre 2025 - 22:21
Catherine Birmingham e Nathan Trevaillon
Una porta si chiude con un clic, in quella stanza senza rumore dove la giustizia si consuma in digitale e le facce diventano finestre. Dall’altra parte dello schermo scorrono documenti, memorie, attestati scolastici arrivati all’ultimo giro di posta. Ma per tre bambini di otto e sei anni la risposta non cambia da quasi un mese: Quando torniamo a casa? La Corte d’Appello dell’Aquila si è riservata la decisione sul reclamo dei genitori della cosiddetta “famiglia nel bosco” e ha fissato il suo orizzonte: entro il 27 gennaio dovrà sciogliere la riserva. Nel frattempo i piccoli restano in una casa famiglia del Vastese con la madre, mentre il padre è rimasto nel casolare di Palmoli a completare adeguamenti che — sostiene la difesa — renderebbero superflua ogni misura di allontanamento.
Qui il tempo non è un dettaglio burocratico: è sostanza. La riserva della Corte d’Appello non assomiglia a un semplice “ci aggiorniamo”, ma al segnale che i giudici hanno davanti un fascicolo cresciuto di colpo. Le nuove carte — incluse le memorie difensive e i documenti sull’istruzione — chiedono una valutazione piena, non una timbratura. Il giudizio camerale concede una finestra che, nei fatti, porta fino al 27 gennaio: un margine previsto, ma pesante quando la misura in vigore è l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila, quella che ha sospeso la responsabilità genitoriale e disposto il collocamento protetto. Il passaggio precedente, e tutt’altro che secondario, risale al 4 dicembre, quando lo stesso collegio minorile, ascoltate le parti, si era riservato su un’istanza di revoca o modifica, segnalando nuovi elementi prodotti in udienza. Tradotto: due binari che corrono paralleli — la revoca davanti al Tribunale e il reclamo in Appello — e un’unica domanda che resta sospesa sopra la testa dei bambini.
Il contenzioso si è cristallizzato attorno a tre parole che nei fascicoli pesano come pietre: emergenza, eccezionalità, interesse del minore. I legali della coppia anglo-australiana, gli avvocati Marco Femminella e Danila Solinas, contestano che l’ordinanza abbia motivato davvero quei presupposti che di norma giustificano un intervento così invasivo su un nucleo familiare. Per la difesa non c’era un pericolo attuale tale da rendere inevitabile l’allontanamento, né un’urgenza che impedisse soluzioni meno traumatiche rispetto al collocamento in struttura. È su questo punto che si gioca gran parte dello scontro: non il giudizio su uno stile di vita, ma la prova — concreta, misurabile — che non esistevano alternative adeguate.
Da qui la richiesta alla Corte d’Appello dell’Aquila di annullare o sospendere il provvedimento, portando sul tavolo i miglioramenti logistici dell’abitazione nel bosco e l’ipotesi di strumenti di affiancamento e controllo domiciliare: educativa familiare, mediazione, monitoraggi in grado — secondo la difesa — di proteggere i bambini senza recidere il legame con l’ambiente di vita. Nelle note difensive compare anche un altro punto che in queste storie diventa sempre uno spartiacque: la mancata audizione dei minori. Il richiamo è alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, dove l’ascolto del bambino, in modo adeguato all’età, non è ornamento ma garanzia.
Il terreno più scivoloso resta quello della scuola, perché qui il racconto pubblico si accende e la semplificazione diventa una scorciatoia. La famiglia rivendica una istruzione parentale, con il supporto di un’insegnante privata, e sostiene di avere regolarizzato per la maggiore la domanda di esame di idoneità presso una scuola statale, producendo attestati arrivati dopo l’ordinanza. Dall’altra parte, la tutrice nominata nel procedimento, Maria Luisa Palladino, ha riferito che i bambini sarebbero in fase di alfabetizzazione e che perfino la maggiore, otto anni, scriverebbe il suo nome sotto dettatura: elementi che, se confermati, indicherebbero una deprivazione educativa non episodica. È qui che la vicenda smette di essere slogan e diventa tecnica: in Italia l’istruzione familiare è legittima, ma non è un recinto senza regole; richiede adempimenti formali e una verifica annuale dell’idoneità, con valutazioni reali sugli obiettivi raggiunti. In parallelo il Tribunale ha indicato anche profili di socializzazione carente — la cosiddetta “deprivazione tra pari” — contestati dalla difesa, che richiama testimonianze e servizi giornalistici con i piccoli al parco o in compagnia di coetanei: se l’istruttoria dovesse fotografare un contesto sociale minimo e stabile, anche il bilanciamento tra protezione e interesse superiore del minore cambierebbe peso.
In mezzo, c’è la voce istituzionale che prova a rimettere un argine: la Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza d’Abruzzo, Alessandra De Febis, ha richiamato più volte al rispetto assoluto della privacy dei minori, perché l’esposizione mediatica può lasciare segni più duraturi di una decisione giudiziaria. Dopo una visita del 25 novembre, De Febis ha rassicurato: I bambini sono sereni e adeguatamente sostenuti. Ma il punto non è solo come stanno oggi: è che cosa resterà domani, quando quei bambini potranno imbattersi in una scia di post, video, dirette, indignazioni e dettagli personali sparsi online come se fossero di nessuno.
Fuori dalle aule, infatti, la storia è diventata un campo di battaglia. Il 16 dicembre, mentre la Corte d’Appello si riservava, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha invitato i magistrati a pronunciarsi prima di Natale. Altri esponenti politici — su tutti il vicepremier Matteo Salvini — hanno definito l’allontanamento una vergogna chiedendone la revoca immediata. I giudici dell’area aquilana, dal canto loro, hanno rivendicato la necessità di approfondire e la fisiologia della riserva quando emergono nuovi elementi. La pressione, però, ha preso una piega più scura: la presidente del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila, la magistrata Cecilia Angrisano, è finita nel mirino di minacce sui social, con la pubblicazione di recapiti personali. L’Associazione Nazionale Magistrati abruzzese ha parlato di “campagna d’odio”, mentre gruppi di sostegno alla famiglia hanno organizzato un sit-in il 6 dicembre a Roma davanti al ministero per la Famiglia e le Pari Opportunità. Qui la linea è netta e non negoziabile: il dissenso civile è legittimo, l’intimidazione no. Mai. Ancora meno quando il centro reale della storia non sono gli adulti, ma tre minori.

Dagli elementi finora emersi, il Tribunale per i Minorenni avrebbe ritenuto critici alcuni aspetti concreti: l’abitazione nel bosco di Palmoli descritta come fatiscente e priva di servizi essenziali, con ricadute su igiene e sicurezza; la difesa replica che i lavori sono in corso — bagno adiacente, miglioramenti strutturali, riorganizzazione degli spazi — e che una vita off grid non coincide automaticamente con incuria. Il punto, per la giustizia minorile, non è il gusto per la vita “alternativa”, ma la compatibilità con standard minimi quando ci sono bambini in età evolutiva. Sul piano sanitario, le prime visite pediatriche in comunità li hanno definiti in buona salute: un dato che abbassa i toni apocalittici e riporta la discussione su educazione, ambiente, scuola. Resta però il nodo delle verifiche: il perimetro degli adempimenti sull’istruzione parentale e, soprattutto, il livello effettivo di alfabetizzazione. Se gli attestati risultano regolari e riferiti a competenze misurate davvero, l’ipotesi di ricongiungimento acquista consistenza; se invece emergono lacune significative e non occasionali, la strada si complica, qualunque sia la simpatia o l’antipatia che la storia genera.
Dietro il caso di cronaca si muove una domanda che torna ciclicamente in Italia: quando lo Stato può — e deve — entrare nella sfera privata dei rapporti tra genitori e figli? La responsabilità genitoriale non è un diritto assoluto, ma una funzione orientata all’interesse del minore; se ci sono indizi di pregiudizio attuale e concreto, i giudici possono sospenderla in via cautelare, come è avvenuto qui in attesa di una verifica di merito. E l’allontanamento, per sua natura, dovrebbe essere l’extrema ratio: misura estrema che richiede proporzionalità, adeguatezza, valutazione reale di supporti meno invasivi — dai servizi sociali ai progetti domiciliari. Infine c’è il tempo, che nei procedimenti minorili non è mai neutro: settimane o mesi lontani da casa, a sei o otto anni, possono lasciare un’ombra emotiva che nessuna sentenza può cancellare. Da qui gli appelli a decisioni rapide, ma soprattutto fondate.
Dalle strutture di accoglienza del Vastese filtrano indicazioni di un adattamento positivo: i tre fratelli sarebbero seguiti sul piano psicologico e scolastico e la madre si trova con loro nello stesso stabile, con visite e tempi disciplinati. È un assetto che attenua l’impatto del distacco, ma non lo elimina: il padre resta fuori dal quotidiano e gli incontri sono regolati d’orario. Anche qui, le parole contano fino a un certo punto: contano le relazioni, le verifiche, i riscontri sul campo.
È per questo che la vera partita, da qui al 27 gennaio, non si gioca sulle tifoserie e nemmeno sulle etichette — “bosco”, “off grid”, “famiglia alternativa” — ma su tre verifiche concrete: sicurezza e igiene dell’abitazione, regolarità e qualità dell’istruzione, capacità di garantire protezione e crescita senza traumi inutili. Il resto è rumore, spesso amplificato da chi non pagherà mai il conto umano di ciò che scrive o condivide.
Nel frattempo il padre, Nathan, continua gli adeguamenti della casa: in un procedimento minorile questi dettagli possono trasformarsi in fatti determinanti, perché il passaggio da “luogo inadatto” a “luogo sufficiente con prescrizioni” è spesso questione di sopralluoghi, verbali tecnici, fotografie, controlli. Non è in discussione un’idea romantica di natura; è in discussione il diritto dei figli a crescere con standard minimi, senza che la scelta degli adulti diventi una scommessa sulla loro pelle.
E poi c’è l’ultima avvertenza, quella che dovrebbe precedere tutto il resto: la privacy dei minori. Video, foto, dirette e commenti creano un archivio permanente che quei bambini non hanno scelto. Chi fa informazione, chi fa politica, chi fa attivismo dovrebbe ricordarselo prima di rilanciare l’ennesimo dettaglio personale travestito da battaglia di principio. Perché questa storia, alla fine, non chiede un verdetto ideologico. Chiede una responsabilità adulta: parlare meno dei genitori e della “vita nel bosco”, guardare di più ai dati su scuola, salute, sicurezza, ascolto. È lì che passa, davvero, la linea tra una libertà da difendere e un diritto dei bambini da proteggere. La Corte d’Appello dell’Aquila ha un calendario e una scadenza: entro il 27 gennaio dovrà dire la sua. Tutti gli altri, nel frattempo, possono almeno evitare di trasformare tre minori in un caso da social.
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