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16 Dicembre 2025 - 22:54
Caso Manuela Murgia, gli abiti riaprono l’inchiesta: sangue e DNA dopo trent’anni
La stanza fredda dell’ex Istituto di Medicina Legale è rimasta chiusa per anni, fuori dal tempo e dalle domande. Dentro, una busta dimenticata con gli abiti di una ragazza di 16 anni, recuperati il giorno dell’autopsia e poi, inspiegabilmente, usciti dal perimetro della storia giudiziaria. Quando, nella primavera 2025, quelle buste vengono riaperte davanti ai periti, la vicenda di Manuela Murgia — la giovane trovata senza vita il 5 febbraio 1995 nel canyon della necropoli di Tuvixeddu — cambia improvvisamente colore. Tra jeans, maglioncino e stivaletti, i tecnici individuano tracce di sangue e residui biologici: materia fragile ma decisiva, che dopo trent’anni può ancora dire se quel corpo precipitò davvero, come sostenuto all’epoca, o se invece qualcuno lo portò fin laggiù per inscenare un suicidio. La Procura di Cagliari ha riaperto il fascicolo, ha iscritto un nome nel registro degli indagati e un caso che sembrava immobile è tornato a respirare.
All’alba del 5 febbraio 1995, in fondo al canyon artificiale che costeggia la necropoli punica di Tuvixeddu, viene trovato il corpo senza vita di Manuela Murgia. Si era allontanata da casa il giorno prima; un testimone dirà di averla vista salire su un’auto. Sul tavolo della cucina restano un rossetto e un profumo; sotto i jeans indossava i pantaloni del pigiama. Dettagli che, col senno di poi, diventano crepe. L’inchiesta si chiude in fretta: suicidio. Ma in casa Murgia nessuno accetta quella versione.
Per due volte, negli anni Novanta e poi nel 2012, l’indagine si riaccende per spegnersi di nuovo. Nel 2024 una nuova istanza viene rigettata. La famiglia non arretra, raccoglie consulenze, recupera testimonianze, si affida al team legale composto dalle avvocate Giulia Lai, Maria Filomena Marras e dall’avvocato Bachisio Mele. A marzo 2025 la Procura di Cagliari riapre formalmente il caso con l’ipotesi di omicidio. Il 30 maggio 2025 arriva la svolta: l’ex fidanzato Enrico Astero, oggi 54 anni, viene iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario. Contestualmente partono gli accertamenti tecnici irripetibili sugli abiti della vittima, ritrovati nell’ala dismessa della Medicina Legale.
La riapertura poggia in larga parte sulla consulenza del medico legale Roberto Demontis, incaricato dalla famiglia. Secondo la sua analisi, le lesioni evidenziate in autopsia — ecchimosi, traumi al dorso, segni compatibili con urti localizzati — non sono coerenti con una caduta libera da oltre 30 metri. Al contrario, risulterebbero più compatibili con un investimento da parte di un’auto e con un successivo trasferimento del corpo nel canyon per simulare il suicidio. Una ricostruzione che ribalta il paradigma e introduce, come ipotesi da verificare, anche una possibile violenza sessuale precedente alla morte.

Le sorelle Murgia oggi in tv (foto facebook)
A colpire gli esperti è anche lo stato degli abiti. In una caduta rovinosa, spiegano i consulenti, ci si aspetterebbero lacerazioni estese, abrasioni diffuse, segni evidenti lungo tutto il corpo. Invece le buste con jeans, slip, calze, leggings, reggiseno, maglioncino, giacca, stivaletti e accessori di Manuela Murgia restituiscono un quadro diverso. Su più capi vengono individuate tracce ematiche, residui biologici, terriccio, materiale vegetale e strisciate nere. Reperti rimasti per anni quasi intatti, oggi al centro di un incidente probatorio e di analisi di laboratorio in corso.
La partita più delicata si gioca sul DNA. Secondo quanto emerge dagli atti e da ricostruzioni televisive, i periti hanno estratto numerosi campioni: in 18 reperti sarebbero state individuate tracce di DNA maschile, con circa 80 marcatori ritenuti utili alla comparazione. L’obiettivo è verificare eventuali compatibilità con il profilo genetico dell’unico indagato, Enrico Astero, ed eventualmente con altri soggetti. Polizia Scientifica e RIS lavorano con una finestra temporale rigida, scandita dall’incidente probatorio, che ha previsto anche un sopralluogo mirato a Tuvixeddu.
Dopo la notifica degli accertamenti irripetibili, il 4 giugno 2025 si tengono i primi esami a Roma, nella sede centrale della Polizia Scientifica. Il 7 luglio 2025 si apre in tribunale a Cagliari l’incidente probatorio sugli abiti, alla presenza delle parti e dei consulenti, tra cui il genetista Emiliano Giardina per la famiglia. Il 20 novembre 2025 i RIS, guidati dal colonnello Andrea Berti, effettuano un nuovo sopralluogo a Tuvixeddu per verificare la compatibilità dei materiali rinvenuti sugli indumenti con il luogo del ritrovamento. La relazione tecnica deve confluire al GIP entro fine novembre, con un’udienza fissata l’11 dicembre 2025 per la chiusura dell’incidente probatorio.
All’epoca dei fatti Enrico Astero aveva 24 anni; oggi, a seconda delle fonti, ne ha 54 o 56 ed è un parrucchiere cagliaritano. È l’unico indagato per omicidio volontario aggravato. Attraverso il suo legale, l’avvocato Marco Fausto Piras, ha sempre respinto ogni accusa. In autunno 2025, intervenendo in una trasmissione nazionale, ha dichiarato la propria estraneità ai fatti, dicendo di avere testimoni e di essere disponibile al prelievo del DNA. La presunzione di innocenza resta un principio non negoziabile, mentre le attività in corso servono a verificare scientificamente ogni ipotesi.
Il motore dell’inchiesta, però, resta umano. Le sorelle Elisabetta e Anna Murgia e il fratello Gioele non hanno mai accettato l’idea del suicidio. Hanno chiesto accesso agli atti, raccolto consulenze, segnalato incongruenze, portando avanti una vera indagine civile. Vogliamo la verità, Manuela non si è uccisa, ripetono da anni. Oggi attendono gli esiti delle analisi genetiche come la prima concreta possibilità di sciogliere un nodo rimasto sospeso per tre decenni.
La decisione di riaprire le indagini, assunta dal sostituto procuratore Guido Pani della Procura di Cagliari, segna un cambio di prospettiva netto: non più una caduta volontaria, ma la pista di un omicidio in un contesto ancora da chiarire. Sangue, DNA, micro-particelle, residui vegetali e minerali possono raccontare una storia coerente solo se letti insieme alla geografia del canyon e alla topografia del punto di rinvenimento. Gli investigatori della Squadra Mobile di Cagliari, che in passato hanno lavorato sotto il coordinamento di dirigenti come Davide Carboni, hanno rimesso mano a un fascicolo in cui il tempo è diventato, paradossalmente, sia nemico sia alleato.
Le consulenze dell’ingegnere Stefano Ferrigno e del medico legale Roberto Demontis contestano l’idea di una caduta autonoma da circa 35 metri, con una velocità stimata attorno ai 90 km orari. Una dinamica che, sostengono, non trova riscontro né nello stato degli indumenti né nella distribuzione delle lesioni, in particolare quelle del dorso e della schiena, né nelle scarpe, prive delle tracce che ci si attenderebbe da un impatto lungo e trascinato sul terreno del canyon. Elementi che non provano da soli un omicidio, ma impongono nuove domande.
Se le comparazioni genetiche individueranno profili compatibili o collegheranno tra loro più tracce su capi diversi, l’impianto probatorio potrebbe fare un salto decisivo. In caso contrario resterà comunque una mappa di reperti da approfondire. Intanto, a Cagliari, il caso ha riattivato la memoria collettiva: servizi televisivi, inchieste giornalistiche, documenti tornati a circolare. Oltre il clamore, resta un dato: il procedimento non è più un archivio polveroso ma un’indagine viva, con un indagato, una tesi alternativa solida sul piano medico-legale e un percorso probatorio in corso. Il caso di Manuela Murgia misura la capacità dello Stato di correggere una verità fragile senza sacrificare le garanzie. È in questo equilibrio, tra diritto e verità, che si gioca l’ultimo atto di una storia iniziata nel 1995 e che, forse, sta finalmente trovando parole nuove. A Tuvixeddu, il canyon continua a custodire silenzio, ma non è più quello di ieri.
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