Cerca

Esteri

Fuggire o morire? Perché almeno 85 mila persone scappano dalla RDC e il Burundi non regge più

L’offensiva dell’M23 nell’est della Repubblica Democratica del Congo spinge donne e bambini verso Gatumba e Buganda. Numeri record, campi saturi, aiuti ridotti: la crisi umanitaria cresce mentre la diplomazia arranca

Fuggire o morire? Perché almeno 85 mila persone scappano dalla RDC e il Burundi non regge più

Fuggire o morire? Perché almeno 85 mila persone scappano dalla RDC e il Burundi non regge più

Appena oltre la palude della Rusizi, all’imbocco del posto di frontiera di Gatumba, la fila sembra non finire mai. Donne con i bambini legati alla schiena, uomini con sacchi di farina vuoti e poche stoviglie, adolescenti con lo sguardo fisso verso la strada che porta a Bujumbura. Ogni volta che un autobus si ferma parte un applauso spontaneo: significa che qualcuno ha trovato posto in un centro di transito. Poi torna il silenzio, rotto solo dal pianto di un neonato. In dieci giorni di dicembre, dopo l’assalto del gruppo armato M23 a Uvira, sono arrivate qui quasi 65.000 persone, parte di un afflusso che, secondo stime congiunte di agenzie umanitarie e autorità locali, ha portato ad almeno 85.000 nuovi arrivi in Burundi dall’inizio dell’ultima ondata. Le Nazioni Unite parlano di un afflusso senza precedenti per rapidità e volume. Molti, soprattutto donne e bambini, non hanno un riparo, non hanno accesso regolare ad acqua potabile, cibo o cure mediche. I numeri cambiano di giorno in giorno, ma le storie restano sempre le stesse: fuga, attesa, sopravvivenza.

L’ultima accelerazione della crisi nasce a sud del Lago Tanganica. Nella prima metà di dicembre 2025 i ribelli dell’M23, che Kinshasa e diversi attori internazionali accusano di ricevere sostegno dal Ruanda, si sono spinti fino a Uvira, snodo strategico del Sud Kivu, a pochi chilometri dal confine burundese. La caduta della città, arrivata dopo mesi di avanzate nel Nord Kivu e nel Sud Kivu, ha fatto saltare tentativi già fragili di tregua e ha innescato un movimento improvviso di civili verso Buganda, nella provincia di Cibitoke, e verso Gatumba, nel comune di Mutimbuzi. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite, tra il 5 e il 15 dicembre il solo punto di ingresso di Buganda ha registrato il passaggio di decine di migliaia di persone, molte delle quali hanno attraversato di notte i canneti della Rusizi o hanno raggiunto il Burundi via lago fino a Rumonge.

A metà dicembre l’M23 ha annunciato l’intenzione di ritirarsi da Uvira come misura di fiducia, su richiesta degli Stati Uniti, ma sul terreno la situazione resta instabile. La presenza di uomini armati non è scomparsa e l’effettività del ritiro è ancora oggetto di verifiche. In questo contesto di annunci e smentite si è consumato l’esodo verso il Burundi.

Secondo l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), solo in dieci giorni di dicembre sono arrivati in Burundi quasi 65.000 rifugiati provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC), in maggioranza donne e bambini. Un picco mai registrato in un arco di tempo così breve. Nei mesi precedenti, tra il 14 e il 21 febbraio 2025, una precedente ondata aveva già portato oltre 40.000 persone ad attraversare il confine, con punte di 9.000 ingressi in un solo giorno. A fine febbraio l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia) stimava 62.000 rifugiati congolesi presenti nel paese, di cui circa il 60% minorenni. A marzo il WFP (Programma Alimentare Mondiale) contava quasi 70.000 nuovi arrivi dall’inizio dell’anno e segnalava una riduzione delle razioni alimentari per mancanza di fondi. Con l’offensiva di dicembre il totale dei nuovi arrivi nella seconda parte dell’anno è cresciuto ulteriormente: la soglia di almeno 85.000 persone in poche settimane, citata da fonti locali e ripresa dai media internazionali, è coerente con i flussi documentati, anche se il dato resta in continuo aggiornamento.

Le operazioni di registrazione si sono concentrate soprattutto a Gatumba e nella provincia di Cibitoke, con capacità di accoglienza molto diverse. Stime operative riportate da media locali parlano di circa 25.000 persone in fase di registrazione a Gatumba e di quasi 40.000 a Buganda nei giorni di massimo afflusso, numeri non ufficiali e soggetti a variazioni a seconda delle aperture dei varchi e dei trasferimenti verso siti di transito come Kansega e Cishemere.

In questa crisi, la componente femminile e minorile è dominante. L’UNICEF stima che circa il 60% dei rifugiati siano bambini e adolescenti, molti dei quali separati dai genitori durante la fuga lungo la Rusizi o attraverso le aree boschive. Diversi hanno camminato per chilometri senza cibo, altri hanno attraversato il fiume su imbarcazioni di fortuna. Operatori umanitari riferiscono anche di casi di annegamento. Nei centri di transito improvvisati, dallo stadio di Rugombo alle scuole di Cibitoke, fino al campo di polizia riadattato a Gatumba, le famiglie dormono su teli di plastica, spesso all’aperto. Le latrine sono insufficienti, i punti d’acqua pochi, l’assistenza sanitaria limitata. Il sovraffollamento, unito alla malnutrizione, aumenta il rischio di focolai di malattie come il morbillo e la diarrea acuta.

Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) ha già dovuto ridurre le razioni per riuscire a raggiungere un numero maggiore di persone con risorse ferme: dal 70% del fabbisogno calorico nel 2024 a circa il 50% nel 2025, con l’avvertimento che, senza nuovi finanziamenti, l’assistenza potrebbe subire ulteriori tagli. L’UNHCR ha lanciato a febbraio un appello d’emergenza da 40,4 milioni di dollari per sostenere l’accoglienza e la protezione in Burundi e nei paesi limitrofi. L’UNICEF e altre organizzazioni non governative lavorano su punti acqua, vaccinazioni e spazi dedicati ai minori, ma la pressione supera la capacità disponibile. Campi come Musenyi sono già oltre il limite per cui erano stati progettati. Tutto questo avviene in un paese che già prima dell’ultima ondata registrava livelli molto elevati di insicurezza alimentare, con 1,9 milioni di persone in condizioni di crisi e tassi di malnutrizione infantile tra i più alti al mondo.

La geografia dell’emergenza ruota attorno a pochi snodi chiave. Gatumba, a pochi chilometri da Bujumbura, è diventata una porta d’ingresso cruciale. Qui un campo di polizia è stato trasformato in centro di prima accoglienza e, nei giorni più intensi, tra i civili in fuga si sono mescolati anche militari congolesi e membri delle milizie Wazalendo in ritirata, complicando la gestione della sicurezza. Buganda, nella provincia di Cibitoke, è indicata dall’UNHCR come il principale punto di ingresso dell’ondata di metà dicembre, con arrivi anche via lago fino a Rumonge. I siti di Kansega e Cishemere hanno assorbito parte dei trasferimenti, ma restano sovraffollati.

Alla base della fuga c’è la ripresa dell’offensiva dell’M23, che le autorità della Repubblica Democratica del Congo, le Nazioni Unite e diversi governi occidentali indicano come sostenuta dal Ruanda, accusa respinta da Kigali. Un rapporto del Gruppo di Esperti delle Nazioni Unite pubblicato in estate ha descritto elementi di comando e controllo esercitati dal Ruanda sulle operazioni del movimento. Organizzazioni come Human Rights Watch hanno documentato gravi violazioni dei diritti umani nelle aree sotto controllo dell’M23, inclusi attacchi contro civili, attivisti e giornalisti. Sul piano diplomatico, gli Stati Uniti spingono per una de-escalation, mentre le organizzazioni regionali come EAC (East African Community, Comunità dell’Africa Orientale) e SADC (Southern African Development Community, Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe) faticano a trovare un quadro condiviso di mediazione. Questo equilibrio instabile si riflette direttamente sull’andamento degli sfollamenti verso il Burundi.

Dietro le cifre restano le vite quotidiane. Coperte insufficienti, quaderni improvvisati in cui i ragazzi provano a scrivere qualche parola di Kirundi per farsi capire, braccialetti di plastica che attestano la registrazione presso ONPRA (Office National pour la Protection des Réfugiés et Apatrides, Ufficio Nazionale per la Protezione dei Rifugiati e degli Apolidi) ma non garantiscono un posto dove dormire. Madri che contano più volte al giorno i figli per assicurarsi che siano tutti presenti. È una scena che si ripete a ogni nuova ondata, aggravata dalla povertà strutturale del Burundi e dal sottofinanziamento cronico delle operazioni umanitarie.

Finché la traiettoria del conflitto nell’est della Repubblica Democratica del Congo non cambierà, ogni tregua resterà fragile e ogni frontiera esposta. La dinamica militare, il ruolo attribuito al Ruanda nei rapporti delle Nazioni Unite, la frammentazione dei tavoli di mediazione e la sovrapposizione delle agende regionali continuano ad alimentare incertezza. Alla frontiera, questa incertezza prende la forma concreta di file come quella di Gatumba: numeri che crescono e racconti sussurrati tra chi è appena arrivato e chi aspetta ancora. La crisi umanitaria nell’est della RDC e nei paesi vicini non è un effetto collaterale del conflitto, ma uno dei suoi indicatori più immediati. Quando la pressione militare aumenta, i flussi verso Buganda, Gatumba e Rumonge si intensificano. A oggi, la risposta richiesta resta elementare e urgente: acqua, cibo, riparo, mentre la diplomazia prova a recuperare il tempo perso.

Fonti: UN Geneva, UNHCR, WFP (World Food Programme), UNICEF, Reuters, Associated Press (AP), Financial Times (FT), Africanews, SOS Médias Burundi, International Rescue Committee (IRC), FEWS NET, Human Rights Watch, Al Jazeera, US Committee for Refugees and Immigrants (USCRI), ONPRA, Nazioni Unite – Gruppo di Esperti sulla RDC.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori