Cerca

Attualità

Littizzetto sfida Elkann sul destino della stampa: non è un’azienda in vendita ma un pezzo di democrazia

Che tempo che fa, 14 dicembre: vendita di giornali e radio, Kyriakou possibile acquirente, governo in mediazione

Littizzetto sfida Elkann

Littizzetto sfida Elkann sul destino della stampa: non è un’azienda in vendita ma un pezzo di democrazia

Non è stata una semplice letterina, né una gag di routine. Quella letta da Luciana Littizzetto a Che tempo che fa, sul Nove, è diventata in pochi minuti un atto politico, culturale e simbolico, capace di riaccendere il dibattito sulla vendita del gruppo Gedi e, più in profondità, sul destino della stampa italiana. Un intervento che ha rotto gli argini della satira per entrare nel terreno, delicato e scivoloso, della responsabilità editoriale.

«Caro John Elkann, un giornale può essere venduto, la stampa no», è l’incipit che ha colpito come una frustata. Il destinatario è chiaro: il presidente di Exor, che ha avviato e chiuso la trattativa per la cessione del gruppo Gedi al colosso greco Antenna, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou. In gioco non ci sono solo asset industriali, ma testate storiche come La Stampa, la Repubblica, HuffPost, tre radio, la redazione di Gedi Visual e realtà territoriali come La Sentinella del Canavese.

Littizzetto non usa giri di parole. «I giornali, quelli seri, sono da sempre il cane da guardia del potere. Temiamo che diventino altro», dice, dando voce a un timore che attraversa redazioni, sindacati e una parte consistente dell’opinione pubblica. E aggiunge, con un’immagine che mescola ironia e allarme: «Per questo i giornalisti si sono trasformati in guerrieri Gedi con penne laser al posto della spada».

Il cuore del discorso è tutto lì: non si tratta di una compravendita qualunque. «Non stai vendendo un chiosco di piadine, John, ma un pezzo della storia culturale italiana, erede di Scalfari». Un richiamo esplicito alla tradizione dell’editoria indipendente, al ruolo che quotidiani come la Repubblica e La Stampa hanno avuto nella costruzione del dibattito pubblico, nella formazione dell’opinione critica, nel controllo del potere.

La satira si fa ancora più tagliente quando Littizzetto mette in fila le caricature possibili del nuovo corso: «Potete prendere Augias e fargli ballare il sirtaki con Giannini, cambiare la trasmissione di Linus in Deejay chiama Grecia». Ma subito dopo arriva il punto fermo: «Non potete comprare la testa di chi scrive, la lingua e il cuore di chi fa la radio, la schiena dritta di chi fa giornalismo». È qui che la risata si spegne e resta il messaggio politico.

«La stampa italiana non è un soprammobile da ricchi ma una voce, una responsabilità, non si può vendere come una bici», insiste. E ancora: «Il giornalismo non è un asset, la satira non è un orpello, la radio non è un gioco da tavolo del potere. Non ci sono solo i soldi nel mondo». Parole che arrivano mentre la vertenza Gedi esce dalle redazioni e approda nei palazzi della politica.

La vendita del gruppo è infatti arrivata ufficialmente a Palazzo Chigi. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’informazione e all’editoria, Alberto Barachini, ha convocato i vertici aziendali e i Comitati di redazione. Un passaggio tutt’altro che formale, che certifica la rilevanza strategica dell’operazione. In Parlamento e nei partiti cresce la pressione affinché il governo valuti l’uso del Golden Power, lo strumento che consente all’esecutivo di intervenire su operazioni considerate sensibili per l’interesse nazionale.

Nel frattempo, nelle redazioni la tensione è altissima. L’assemblea dei giornalisti ha proclamato lo stato di agitazione, arrivando a bloccare l’uscita del giornale e affidando al Cdr un pacchetto di cinque giorni di sciopero. Una scelta drastica, che segnala quanto la questione venga percepita come esistenziale. Non solo per l’occupazione, ma per l’identità editoriale.

A preoccupare è anche un dettaglio tutt’altro che secondario: il potenziale acquirente avrebbe già manifestato disinteresse per La Stampa, aprendo lo scenario di una cessione separata o di una ricerca di un altro editore. Un’ipotesi che alimenta ulteriormente l’incertezza e rafforza la richiesta, avanzata dal coordinamento dei Cdr di Gedi, di inserire clausole sociali vincolanti nell’accordo di compravendita per tutelare i livelli occupazionali.

Sul piano politico, la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha chiesto garanzie chiare su lavoro e pluralismo. Ma al di là delle prese di posizione ufficiali, la sensazione è che la letterina di Littizzetto abbia fatto qualcosa che comunicati e interrogazioni faticano a fare: tradurre una vertenza industriale in una questione culturale comprensibile a tutti.

Perché la posta in gioco non è solo chi possiede i giornali, ma che tipo di informazione verrà prodotta domani. Se un’informazione capace di disturbare, di contraddire, di fare da cane da guardia. O un’informazione addomesticata, piegata alle convenienze economiche e ai rapporti di forza.

Quando Littizzetto dice «un giornale può essere venduto, ma la stampa quella vera non è in vendita», non sta difendendo una categoria. Sta ricordando che senza una stampa libera, il potere smette di avere contrappesi. E che in quel vuoto, alla fine, a perdere non sono solo i giornalisti, ma i cittadini.

La partita su Gedi è appena cominciata. Ma una cosa è certa: da domenica sera, non è più solo una trattativa finanziaria. È diventata una questione pubblica, e come tale sarà giudicata.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori