Letizia Teglia è scomparsa il 30 agosto 1995. Aveva 24 anni, un lavoro stabile al Tribunale dei Minori, una vita organizzata intorno a gesti ripetuti, percorsi noti, telefonate di rassicurazione alla madre. Non è mai stata ritrovata. Trent’anni dopo, a Borgaro Torinese, il suo nome è stato inciso su una targa. Non per chiudere una storia, ma per dire che non è mai stata chiusa.
Ieri mattina, in piazza della Repubblica, Borgaro ha scelto di fermarsi. Di fare quello che troppo spesso le istituzioni non fanno: pronunciare un nome, assumersi una responsabilità, guardare una ferita senza voltarsi dall’altra parte. La cerimonia non è stata una commemorazione rituale. È stata una presa di posizione civile. Perché Letizia Teglia non è una pagina archiviata, non è una pratica polverosa, non è un caso “vecchio”. È una donna scomparsa e mai ritrovata. E finché manca una verità, il tempo non conta.
Letizia era ipovedente dall’età di tre anni, a causa di una lesione al nervo ottico. Non per questo fragile, non per questo dipendente. Ogni mattina usciva di casa da sola, prendeva l’autobus, raggiungeva il lavoro. Una quotidianità misurata, fatta di attenzione e autonomia, costruita negli anni con determinazione. La sua non era una vita ai margini. Era una vita piena, ordinaria, riconoscibile. Proprio per questo la sua scomparsa è ancora più insopportabile.
Quel 30 agosto esce come sempre. Chiama la madre, Angela Vortici, per dire che rientrerà più tardi: deve passare all’ospedale di Rivoli a ritirare gli esiti di un esame. Solo dopo emergerà il suo timore di essere incinta. Nel pomeriggio parla con tre persone centrali della sua vita: la madre, suor Delia Bradanini, ex maestra e figura di riferimento affettivo, e Daniele, l’ex fidanzato, anche lui ipovedente. Una relazione finita, ma non recisa. Un vicino dirà di averla vista alla fermata del pullman 60 poco dopo le 18. È l’ultima traccia certa di Letizia viva. Poi il nulla.
Nessun corpo. Nessuna verità. Nessuna fine. Solo un fascicolo che resta formalmente aperto e sostanzialmente immobile. Anni che passano senza perizie decisive, senza svolte, senza risposte. Finché, quattordici anni dopo, una cassetta dimenticata restituisce una voce. È la voce di Letizia. Racconta di un’aggressione, di uno stupro. Mi hanno assalita due ragazzi… Io chiedevo aiuto… Perché c’era una ragazza violentata… E quella ragazza ero io. Parole che non vengono cristallizzate in una perizia, che non producono un’accelerazione investigativa. Restano lì, sospese, come tutto il resto.
Ieri, accanto a quella targa, c’era Angela. Novantun anni. Una vita attraversata dall’attesa. Angela non ha mai avuto una tomba su cui piangere, un luogo dove portare un fiore, una risposta da accettare. Ha avuto solo il tempo che passa e la scelta di non arrendersi. In trent’anni ha scritto, telefonato, bussato alle porte delle istituzioni. Ha trasformato il suo dolore in una battaglia pubblica, fondando l’associazione Penelope, perché nessun genitore resti solo davanti a una scomparsa. Ieri lo ha detto con la stessa fermezza di sempre: Non chiuderò gli occhi prima di sapere la verità. Non è una frase simbolica. È un impegno preso con se stessa, con la figlia, con chi guarda.
Attorno a lei non c’era solo Borgaro. C’erano le famiglie delle persone scomparse, quelle che vivono in una sospensione permanente. In Italia sono circa 65 mila. In Piemonte tremila. Numeri che non sono statistiche, ma vite congelate. Quando una persona scompare, non viene rubata solo una vita. Vengono rubati il tempo, il futuro, la possibilità stessa di elaborare il lutto. La violenza non è solo l’atto che fa sparire qualcuno. È l’oblio che segue. È l’abbandono. È la solitudine dei familiari.
La targa dedicata a Letizia Teglia non restituisce una figlia a sua madre. Non colma un vuoto. Ma fa qualcosa di essenziale: impedisce che l’assenza venga normalizzata. Costringe chi passa a fermarsi, a leggere, a chiedersi perché una giovane donna sia scomparsa nel nulla e perché, trent’anni dopo, non esista ancora una risposta. Non è un gesto formale. È un atto politico nel senso più alto del termine: riguarda la comunità, la memoria, la responsabilità condivisa.
C’è una frase che ieri è tornata più volte: Nessuno scompare nel nulla. È vero. A scomparire, spesso, sono l’attenzione, la continuità delle indagini, la volontà di non archiviare ciò che è scomodo. Il caso di Letizia Teglia non è irrisolto per mancanza di elementi, ma per assenza di insistenza. Le telefonate di quel giorno, i movimenti del pullman 60, gli accessi in ospedale, il nastro con la sua voce: tutto esiste. Tutto potrebbe ancora essere verificato. La differenza tra un caso irrisolto e un caso abbandonato sta qui.
Ieri Borgaro ha fatto una scelta diversa. Ha inciso un nome nella pietra per dire che questa storia riguarda tutti. Che la scomparsa non è un fatto privato, ma una ferita collettiva. Che ricordare non è un atto di nostalgia, ma un esercizio di giustizia. Letizia oggi avrebbe 54 anni. Non sappiamo dove sia, non sappiamo cosa le sia accaduto dopo quella fermata dell’autobus. Sappiamo però che il suo nome non è stato cancellato. E finché qualcuno si fermerà davanti a quella targa, finché qualcuno continuerà a chiedere come è finita la sua storia, l’assenza non avrà vinto.
