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12 Dicembre 2025 - 20:03
Iran, arrestata con violenza la Nobel Narges Mohammadi durante una commemorazione a Mashhad
Un telefono vibra tra le mani di un ragazzo nella folla, davanti a una moschea di Mashhad. Sullo schermo si intravede Narges Mohammadi, senza velo, che parla dal tetto di un’auto. Poi l’ondeggiare caotico delle immagini, le urla, l’avanzare improvviso di uomini in uniforme. La Premio Nobel per la Pace 2023 viene afferrata per i capelli e trascinata verso un’auto, mentre intorno volano lacrimogeni e partono spintoni. È il pomeriggio di venerdì 12 dicembre 2025. La cerimonia del “settimo giorno” in memoria dell’avvocato per i diritti umani Khosrow Alikordi, 46 anni, si trasforma in un’operazione di polizia. Insieme a Mohammadi vengono fermate altre persone. Dalle autorità iraniane non arriva alcun commento immediato.
Secondo la Fondazione Narges Mohammadi, l’attivista cinquantatreenne è stata arrestata “con violenza” da forze di sicurezza e di polizia durante la commemorazione per Alikordi, morto in circostanze controverse il 6 dicembre 2025. La Fondazione chiede la liberazione “immediata e incondizionata” di tutti i fermati e parla di una “grave violazione delle libertà fondamentali”. Testimonianze e filmati diffusi da media persiani all’estero e da reti per i diritti umani mostrano Mohammadi senza hijab mentre guida cori e invita i presenti a ricordare Majidreza Rahnavard, il giovane impiccato in pubblico nel 2022 dopo le proteste seguite alla morte di Mahsa Jina Amini. Le stesse fonti riferiscono di cordoni di polizia e reparti militari attorno alla moschea, di lacrimogeni e cariche contro i partecipanti. In più punti le immagini mostrano Mohammadi trascinata via “per i capelli scoperti” e spinta dentro un’auto, mentre alcune donne tentano di opporsi. Altre attiviste e altri attivisti risultano arrestati, tra cui, secondo alcune segnalazioni, volti noti della società civile. Osservatori e organizzazioni parlano di un copione già visto, in cui commemorazioni, funerali e anniversari diventano spazi di controllo e repressione.

La vicenda ruota attorno a Khosrow Alikordi, avvocato e difensore dei diritti che negli ultimi anni aveva assistito manifestanti e famiglie in cerca di giustizia per le vittime della repressione successiva al 2022. Il suo corpo è stato trovato nel suo ufficio di Mashhad all’alba del 6 dicembre. La versione ufficiale parla di “infarto”, ma oltre ottanta avvocati hanno chiesto chiarimenti e un’indagine trasparente, segnalando una stretta securitaria più ampia coincisa con la sua morte. Organizzazioni indipendenti come Iran Human Rights parlano di “seri sospetti di omicidio di Stato”, citando informazioni su possibili segni di percosse e sul sequestro immediato dei filmati delle telecamere di sorveglianza. Nei giorni precedenti Alikordi avrebbe scritto, o fatto recapitare, una lettera a una missione di accertamento delle Nazioni Unite (Organizzazione delle Nazioni Unite) chiedendo protezione come “avvocato a rischio” e denunciando pressioni e minacce delle agenzie di sicurezza. È un elemento che non fornisce certezze, ma contribuisce a rendere il quadro più inquietante.
Per comprendere perché il fermo di Narges Mohammadi abbia un peso così forte, occorre ricordare il suo percorso. Ingegnera, giornalista e leader civile, da oltre vent’anni è impegnata contro le discriminazioni di genere, la pena di morte e la tortura. Nel 2023, assegnandole il Nobel, il Comitato Norvegese per il Nobel ha ricordato che la sua attività le è costata tredici arresti, cinque condanne e un cumulo di pene superiore ai trent’anni di carcere e a centocinquantaquattro frustate. Quando ricevette il premio era detenuta nella prigione di Evin, a Teheran. Il suo nome è legato allo slogan “Donna–Vita–Libertà”, esploso dopo l’uccisione in custodia di Mahsa Jina Amini nel settembre 2022, una stagione di proteste che ha portato in piazza migliaia di persone, con oltre cinquecento morti e almeno ventimila arresti. Dal carcere Mohammadi ha continuato a scrivere e a organizzare, diventando un simbolo di una richiesta di riforma che il potere ha considerato una minaccia diretta.
La sua salute è da tempo parte del confronto con le autorità. Dopo anni di cure negate o ritardate, tra 2021 e 2024l’attivista ha avuto gravi problemi cardiaci, fino a subire più infarti e un’angioplastica con posizionamento di stent. Nel novembre 2024 ha affrontato un intervento alla gamba per rimuovere una lesione ossea con innesto. All’inizio di dicembre 2024 il procuratore di Teheran le ha concesso una sospensione di ventuno giorni della pena per consentire il recupero, una durata giudicata insufficiente dalla famiglia e dalla Free Narges Coalition, che citavano una raccomandazione medica di almeno tre mesi. La sospensione è stata poi prorogata per motivi sanitari, ma le pressioni per il rientro in carcere non si sono fermate. Nel 2025 organizzazioni come Human Rights Watch hanno chiesto il rilascio incondizionato di Mohammadi, documentando cardiopatia, dolori cronici, necessità di fisioterapia e controlli periodici per la lesione ossea rimossa. Negli ultimi mesi, medici e sostenitori hanno avvertito che un ritorno in cella, soprattutto in condizioni di stress e senza strutture adeguate, potrebbe aggravare seriamente il suo stato. Il fermo violento del 12 dicembre 2025 riporta questi timori al centro.
La cerimonia per Alikordi non era solo un momento di lutto. In Iran i “settimi giorni” rappresentano spesso spazi collettivi di parola pubblica, in cui comunità e categorie sociali misurano il proprio margine di agibilità. Il fatto che l’evento si svolgesse a Mashhad, città santuario ma anche roccaforte di poteri religiosi e apparati di sicurezza, aumentava la tensione. L’assenza di velo di Mohammadi, i cori riportati da emittenti persiane all’estero, tra cui “Morte al dittatore”, e i richiami alle esecuzioni del 2022 hanno reso il contesto ancora più sensibile. La risposta delle autorità è stata una chiusura fisica dello spazio: perimetri bloccati, assembramento disperso, fermi di chi parlava e di chi riprendeva. La Fondazione Narges Mohammadi e canali informativi come HRANA (Human Rights Activists News Agency) hanno diffuso le prime immagini. Testate internazionali come Associated Press, The Guardian e Timehanno rilanciato la notizia. Da Teheran, nel breve periodo, non è arrivata una versione ufficiale. Resta incerto se Mohammadi verrà ricondotta in carcere per scontare le condanne residue o se si aprirà un nuovo procedimento legato ai fatti di Mashhad.
Il fermo avviene in una fase di controllo interno stringente su attivisti, intellettuali e sindacalisti, sullo sfondo di sanzioni persistenti, inflazione elevata e tensioni regionali. Il tempismo conta: ogni volta che Teheran prova a mostrarsi disponibile su canali diplomatici, dal dossier nucleare a contatti tattici con gli Stati Uniti d’America, episodi di repressione interna hanno un costo di reputazione. La cattura della più nota attivista iraniana vivente, insignita del Nobel appena due anni prima, è un messaggio rivolto sia all’interno sia all’esterno. In passato il Comitato Norvegese per il Nobel ha definito “ingiusta” e “implacabile” la spirale di condanne contro Mohammadi, invitando le autorità iraniane a porvi fine e a garantire cure adeguate. Ha ricordato che l’attivista non avrebbe mai dovuto essere arrestata, imputata e condannata per un’attività che in una democrazia non è un reato: parlare di diritti e uguaglianza. Dopo Mashhad, quelle parole tornano di attualità.
Restano questioni concrete. Le condizioni di salute di Narges Mohammadi dopo un fermo così violento, alla luce della sua storia clinica, richiedono chiarezza su eventuali traumi fisici subiti durante l’arresto e il trattenimento. Non è noto dove si trovi ora, se sia stata trasferita alla prigione di Evin o in una struttura di sicurezza a Mashhad, e questo incide sull’accesso a legali e familiari. Non è chiaro quale cornice giuridica verrà utilizzata, se si procederà con l’esecuzione di vecchie condanne o con nuovi capi di imputazione, come la “propaganda contro lo Stato” o la partecipazione a una manifestazione non autorizzata. Sul fronte Alikordi, le richieste di un’indagine indipendente si moltiplicano. Se, come riferito, i filmati di videosorveglianza sono stati sequestrati e l’accesso della famiglia limitato, la credibilità della versione dell’“infarto” si indebolisce, alimentando il sospetto alla luce di precedenti storici di morti sospette.
Quanto accaduto a Mashhad non si esaurisce in un episodio isolato. Le proteste del 2022, nate dalla morte di Mahsa Jina Amini, hanno modificato in profondità il rapporto tra società e Stato in Iran. In questa frattura, figure come Alikordi e Mohammadi diventano bersagli perché tengono insieme diritto, memoria e parola pubblica. Arrestare una Premio Nobel per la Pace durante un rito collettivo è una scelta che indica il controllo dello spazio pubblico e la negazione della memoria come terreno di confronto civile. Le prossime ore e i prossimi giorni diranno se prevarrà la linea del silenzio o se si aprirà uno spiraglio di trasparenza. Organizzazioni come Human Rights Watch hanno già ribadito la richiesta di rilascio immediato e incondizionato. Al momento si conoscono i fatti essenziali: il fermo a Mashhad il 12 dicembre 2025, la morte di Khosrow Alikordi il 6 dicembre con una versione ufficiale contestata, l’assenza di comunicazioni da parte delle autorità. Non si conoscono ancora il luogo di detenzione di Narges Mohammadi, i capi di imputazione, né l’elenco completo degli altri fermati. È in questo vuoto informativo che si gioca una partita che riguarda non solo l’Iran, ma la credibilità di ogni richiamo universale a diritti, giustizia e verità.
Fonti: Fondazione Narges Mohammadi; Iran Human Rights; HRANA (Human Rights Activists News Agency); Human Rights Watch; Associated Press; The Guardian; Time; Comitato Norvegese per il Nobel; dichiarazioni e documenti di missioni delle Nazioni Unite (Organizzazione delle Nazioni Unite).
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