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09 Dicembre 2025 - 17:16
Putin
La stanza resta immobile mentre il legno del tavolo riflette fascicoli ordinati con cura. Un arbitro internazionale scorre un documento e in cima a quelle pagine compare un numero che pesa più di molte decisioni politiche: 16 miliardi di dollari. È la richiesta avanzata dall’oligarca Mikhail Fridman contro uno Stato dell’Unione europea, basata su un vecchio trattato bilaterale di investimento. Non siamo in un tribunale ordinario, ma davanti a un collegio di arbitrato internazionale, lo strumento che da trent’anni consente agli investitori di citare in giudizio i governi. Ed è qui, in città come Ginevra, Parigi, Londra o Hong Kong, che si consuma una parte meno visibile della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina: il fronte legale costruito contro il sistema delle sanzioni.
Secondo un rapporto elaborato da organizzazioni non governative europee, imprese e oligarchi russi — insieme a investitori che rivendicano la protezione di trattati firmati decenni fa — stanno moltiplicando i ricorsi arbitrali per contestare congelamenti di beni, restrizioni finanziarie e blocchi commerciali. Le somme già note raggiungono almeno 48 miliardi di dollari, circa 41 miliardi di euro, distribuiti su 24 casi identificati. Ma la maggior parte degli importi non è pubblica, perché le procedure sono riservate. Stime indipendenti parlano di un potenziale complessivo di 62 miliardi di dollari. Il messaggio politico è diretto: se l’Europa utilizza lo strumento delle sanzioni, chi è colpito cercherà di far valere i propri diritti nei tribunali internazionali, sfruttando meccanismi nati in un’altra epoca, come il sistema ISDS (Investor-State Dispute Settlement), ovvero il meccanismo che permette a un investitore estero di citare uno Stato davanti a un tribunale arbitrale internazionale.
Il paradosso è evidente. Le basi giuridiche di molte di queste azioni risalgono agli anni Ottanta e Novanta, quando i Paesi europei firmavano trattati bilaterali di investimento (BIT, Bilateral Investment Treaty) per “agganciare” l’Unione Sovietica e gli Stati del suo ex spazio politico all’economia di mercato. È il caso del BIT del 1989 tra il Belgio-Lussemburgo e l’URSS, lo stesso che invoca Fridman per sostenere che il congelamento dei suoi asset in Lussemburgo equivalga a una forma di espropriazione senza indennizzo. Altri ricorrenti fanno leva su clausole della Carta dell’Energia (ECT, Energy Charter Treaty), che prevede tutele e arbitrati in materia energetica, oppure su una rete di vecchi trattati bilaterali ancora formalmente attivi. Per i governi europei è una tenaglia giuridica: strumenti creati per proteggere gli investimenti contro misure arbitrarie oggi vengono usati per contestare decisioni adottate in risposta a una guerra di aggressione.
Nel mosaico dei ricorsi il volto più noto è proprio Mikhail Fridman, che ora tenta la carta dell’arbitrato in base al BIT del 1989, con una richiesta stimata di 16 miliardi di dollari. La scelta di sedi come Hong Kong, fuori dall’Unione europea, è parte della strategia per cercare contesti considerati più “neutrali” rispetto al regime sanzionatorio europeo. Un altro fronte riguarda il settore dei fertilizzanti: la società bielorussa Belaruskali, grande produttore di potassa e alleato economico di Minsk, ha avviato un procedimento contro la Lituania chiedendo circa 12 miliardi di dollari dopo il blocco del transito ferroviario dei suoi prodotti. È un caso che mostra come il contenzioso non riguardi soltanto oligarchi, ma anche imprese di Paesi che sostengono politicamente ed economicamente il Cremlino, intenzionate a esplorare fino in fondo i margini del diritto internazionale degli investimenti.
Più complesso è il capitolo Euroclear, il grande depositario centrale europeo con sede a Bruxelles, che custodisce la parte più consistente degli asset sovrani russi congelati: secondo studi parlamentari, tra 183 e 190 miliardi di euro, su un totale europeo di circa 210 miliardi di euro. Diversi investitori russi o società riconducibili agli stessi avrebbero già minacciato o avviato ricorsi contro il Belgio, contestando sia il congelamento sia l’uso degli interessi maturati. In questo caso, il contenzioso non mette in gioco solo eventuali risarcimenti: coinvolge direttamente il bilancio belga, poiché lo Stato incassa imposte rilevanti sugli utili straordinari generati da Euroclear grazie agli asset bloccati, pari a circa 1,7 miliardi di euro nel 2024.
A queste vicende si aggiungono i procedimenti contro l’Ucraina relativi all’esclusione di una banca legata a interessi russi dal sistema finanziario ucraino, per un totale dichiarato di circa 1,4 miliardi di dollari. Ma ciò che emerge è soltanto la parte visibile di un insieme molto più ampio, perché gli arbitrati ISDS sono spesso coperti da clausole di riservatezza e molti importi non vengono resi pubblici.

Mentre il fronte legale si sposta sugli arbitraggi, l’Unione europea ha provato a ridurre i margini di manovra attraverso due interventi centrali. Con il diciottesimo pacchetto sanzioni, approvato nel luglio 2025, Bruxelles ha introdotto norme che consentono agli Stati membri di rifiutare il riconoscimento e l’esecuzione di lodi arbitrali che neutralizzerebbero gli effetti delle sanzioni, invocando la clausola di ordine pubblico prevista dalla Convenzione di New York del 1958. Sono state introdotte anche disposizioni che autorizzano i governi a recuperare i costi sostenuti per difendersi da ricorsi considerati abusivi. Parallelamente, nel 2024 la Commissione e il Consiglio europei hanno adottato una decisione che esclude gli investitori russi e bielorussi dalle tutele dell’ECT, impedendo che la Carta dell’Energia diventi uno strumento per aggirare l’impianto sanzionatorio.
La stessa logica si sta estendendo oltre l’Unione: nell’ottobre 2025 anche la Svizzera ha introdotto misure per evitare arbitrati considerati illegittimi, specie se mirati a indebolire i regimi sanzionatori. Una scelta significativa, perché molte esecuzioni di lodi internazionali sono state tradizionalmente ricercate proprio nei tribunali svizzeri.
Sul piano politico, il dossier più delicato resta quello degli asset sovrani russi congelati. Le istituzioni europee discutono da mesi se e come impiegare gli interessi maturati, o se creare strumenti finanziari garantiti da questi fondi per sostenere Kyiv. Ma ogni decisione incontra la resistenza di paesi come il Belgio, che temono di esporsi a richieste di risarcimento per miliardi di euro. Negli ultimi negoziati tra Commissione europea, Germania e governo belga si è lavorato per creare un meccanismo di garanzia condivisa fra Stati membri, che eviti di lasciare Bruxelles da sola a fronteggiare possibili lodi sfavorevoli. Nel frattempo, resta un dato costante: a novembre 2025 l’Unione europea ha immobilizzato circa 210 miliardi di euro di asset sovrani russi, con Euroclear che ne detiene la parte predominante. E mentre la politica fatica a trovare un compromesso, gli investitori colpiti provano a muoversi prima, utilizzando gli arbitrati per bloccare qualunque iniziativa che possa diminuire il valore dei fondi congelati.
Il punto centrale del contenzioso è una domanda giuridica complessa: un congelamento deciso per motivi di sicurezza internazionale può essere considerato un’espropriazione ai sensi dei trattati d’investimento? Gli investitori sostengono che, quando la misura si prolunga e impedisce l’uso degli asset, si entra nel campo delle espropriazioni indirette, che richiedono compensazione. Gli Stati replicano richiamando la clausola di sicurezza e l’ordine pubblico internazionale: le sanzioni sono strumenti di politica estera per reagire a una guerra di aggressione e concedere indennizzi vanificherebbe lo scopo delle misure restrittive. I collegi arbitrali dovranno decidere su un terreno frammentato, mentre gli investitori cercano sedi favorevoli per ottenere il riconoscimento dei lodi. È in questo scenario che alcune scelte di sede, come Hong Kong o la stessa Svizzera prima delle recenti modifiche normative, assumono un valore decisivo.
Anche le implicazioni economiche sono pesanti. I 48 miliardi di dollari rappresentano la parte visibile delle richieste avanzate; la cifra reale potrebbe essere molto più alta, perché più della metà dei casi non rivela gli importi domandati. Stime indipendenti parlano di 62 miliardi di dollari. A questo vanno aggiunti i costi indiretti: spese legali, misure cautelari e il rischio di sequestri mirati di asset pubblici all’estero in caso di lodi riconosciuti in giurisdizioni più permeabili agli interessi dei ricorrenti. Non sorprende che i ministeri delle finanze europei considerino il dossier a rischio elevato.
Per ridurre l’esposizione, le capitali europee stanno accelerando la riforma o la cessazione dei BIT più vulnerabili e delle clausole ISDS “di vecchia generazione”. Dopo la sentenza Achmea, che ha invalidato gli arbitrati intra-UE, molti Stati hanno avviato la rescissione dei trattati interni. Resta però il nodo dei BIT con Paesi terzi, compresa la Russia, aggravato dalle clausole di sopravvivenza che mantengono attive le tutele anche dopo la cessazione, in alcuni casi per vent’anni. Parallelamente, l’UE sta gestendo il recesso dall’ECT e ha adottato regole che impediscono agli investitori russi e bielorussi di usare il trattato come scudo per contestare le sanzioni. Sul piano interno, gli Stati stanno utilizzando l’eccezione di ordine pubblico per respingere lodi contrari ai regolamenti sanzionatori e, quando necessario, stanno lavorando a leggi speciali per proteggere i bilanci pubblici da esecuzioni aggressive. Anche la Svizzera, come già accennato, ha iniziato a limitare l’accesso alle procedure di esecuzione per questo tipo di contenziosi.
Rimangono tre interrogativi cruciali. La giurisprudenza arbitrale sulle sanzioni è ancora poco sviluppata, e la possibilità di decisioni non uniformi è elevata. I meccanismi di garanzia all’interno dell’UE per l’uso dei proventi o del valore degli asset russi sono incompleti, e paesi chiave come il Belgio chiedono coperture per evitare che eventuali condanne pesino su un solo bilancio nazionale. Le contro-misure russe — come le amministrazioni temporanee sugli asset occidentali o i trasferimenti forzati a Rosimushchestvo — generano un ulteriore sistema di cause incrociate, che l’Unione europea sta cercando di gestire con strumenti compensativi, ma con margini ridotti.
Per i decisori europei la priorità è chiara: evitare che vecchi trattati diventino la scorciatoia giuridica per aggirare le sanzioni. Anticipare il contenzioso con atti interpretativi e riforme mirate costa meno che affrontare ricorsi miliardari. Per i lettori e per le imprese è il momento di comprendere un punto: la geopolitica passa anche dai tribunali arbitrali. Una procedura ISDS può spostare miliardi, condizionare politiche pubbliche e incidere sulla diplomazia. Per l’Ucraina, la questione si intreccia con la necessità di risorse rapide e prevedibili: tra interessi maturati sugli asset congelati e nuovi strumenti finanziari garantiti, ogni passo deve fare i conti con ricorsi che mirano a rallentare o bloccare l’utilizzo delle risorse.
Insomma, l’Europa deve affrontare un passato che riaffiora sotto forma di trattati ancora attivi e clausole che non sono mai state disinnescate. Gli arbitraggi non decideranno l’esito della guerra, ma potranno influire in modo rilevante su chi dovrà sostenere i costi economici del conflitto. E nelle stanze dove cifre miliardarie scorrono tra pagine di memorie difensive e obiezioni preliminari, il confronto giuridico diventa un altro campo di battaglia, meno visibile ma non meno decisivo.
Fonti utilizzate: rapporto pubblicato da ONG europee; documentazione della Commissione europea; studi parlamentari europei; atti del Consiglio dell’Unione europea; comunicazioni ufficiali del governo belga; analisi indipendenti di centri di ricerca sul sistema ISDS, sui BIT e sulla Carta dell’Energia (ECT).
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