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08 Dicembre 2025 - 18:11
UE verso i rimpatri fuori Europa: accordi, centri esterni e nuova stretta sui migranti
Un cartello di plastica appeso a una porta chiusa, scritto a pennarello: “Return hub – accesso riservato”. La foto, scattata in un’anonima sala riunioni di Bruxelles durante una simulazione tecnica, circola tra i delegati mentre i ministri degli Interni dei 27 accelerano le trattative. È l’immagine che sintetizza una svolta profonda nelle politiche migratorie dell’Unione Europea: dal modello basato sulla gestione interna all’“esternalizzazione” delle procedure e dei rimpatri in paesi terzi considerati affidabili dal punto di vista della sicurezza. La giustificazione, ripetuta da mesi nei documenti della Commissione europea, è un dato: solo il 20% delle persone destinatarie di un ordine di espulsione lascia davvero l’Europa. È questo il punto di partenza del nuovo impianto politico e normativo, che punta a più detenzione, più rimpatri, più accordi con Stati esterni all’UE e liste comuni per accelerare le decisioni.
Il passo decisivo è arrivato l’8 dicembre 2025, quando i ministri degli Interni dell’UE hanno adottato una posizione comune su tre testi che compongono l’ossatura del nuovo approccio: il regolamento europeo sui rimpatri, l’introduzione operativa della nozione di “paese terzo sicuro” e la creazione di una lista di “paesi d’origine sicuri” per velocizzare esami, rigetti e rimpatri. A questi si aggiunge un “pool di solidarietà” previsto per il 2026 a sostegno degli Stati di primo approdo. Si tratta di mandati negoziali per il trilogo con il Parlamento europeo, non della legge definitiva, ma l’esito è politicamente chiaro: il Patto migrazione e asilo, che dovrebbe entrare in vigore il 12 giugno 2026, prende forma nella sua interpretazione più restrittiva.
Le note del Consiglio dell’UE indicano che il regolamento sui rimpatri uniforma procedure e poteri, introduce un Ordine di Rimpatrio europeo, rafforza il mutuo riconoscimento delle decisioni e prevede misure aggiuntive in caso di inottemperanza, dalla sospensione di benefici e permessi di lavoro alla possibilità di sanzioni penali, con detenzione più lunga e divieti d’ingresso estesi. Il testo precisa che il “paese di rimpatrio” può essere anche uno Stato terzo con cui sia stato concluso un accordo sui cosiddetti hub di rimpatrio, purché siano rispettate le regole internazionali e il principio di non-refoulement. Sul versante dell’asilo, i governi sostengono un uso più ampio delle categorie di “paese terzo sicuro” e “paese d’origine sicuro” per accelerare le decisioni. Tra i paesi menzionati nei documenti preparatori compaiono Bangladesh, Egitto, India e Tunisia, una lista ancora oggetto di confronto con l’Eurocamera.

L’elemento più divisivo del nuovo impianto è la normalizzazione degli hub di rimpatrio in paesi extra-UE. Non si tratta della creazione di una rete unica europea di centri, ma di una cornice giuridica che consente agli Stati membri o all’UE di firmare accordi con paesi terzi per trattenere temporaneamente persone già destinatarie di un ordine di allontanamento, in attesa del ritorno nel paese d’origine dopo la chiusura definitiva dell’iter di protezione internazionale. La Commissione europea ha proposto la struttura in primavera, indicando la necessità di garanzie sui diritti fondamentali, monitoraggio indipendente e clausole di sospensione. I governi favorevoli considerano gli hub un deterrente agli ingressi irregolari e uno strumento per superare lo stallo dei rimpatri. I critici, tra cui ONG, giuristi e l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali (FRA), temono invece la creazione di aree grigie prive di trasparenza, con responsabilità poco definite e rischi di detenzione prolungata. La FRA ha ricordato che gli hub non possono diventare spazi senza garanzie, elencando condizioni minime come accordi vincolanti, controlli indipendenti e pieno rispetto del non-refoulement.
La spinta politica arriva da una maggioranza di governi orientati verso una linea più dura, con la Danimarca in veste di motore della stretta. Il ministro per l’Immigrazione e l’Integrazione Rasmus Stoklund ha sostenuto con forza l’introduzione di strumenti più incisivi, richiamando il dato secondo cui tre persone su quattro destinatarie di un ordine di espulsione restano nell’UE. È un indirizzo che riflette la crescita di destra ed estrema destra, capace di influenzare l’agenda di molti governi. Non tutti gli Stati, però, sono allineati. Spagna e Francia hanno espresso dubbi sulla fattibilità e sulla legalità degli hub, mentre altri chiedono garanzie individuali e tutele rafforzate. La battaglia si sposterà ora nel Parlamento europeo, dove gli equilibri politici rendono il negoziato tutt’altro che scontato.
Il quadro europeo recepisce esperimenti avviati da tempo a livello nazionale. L’Italia ha costruito due centri in Albania, gestiti direttamente da Roma, per processare e trattenere persone con domanda respinta e ordine di rimpatrio. Il progetto, costato circa 800 milioni di euro in cinque anni, ha incontrato ostacoli legali: più tribunali italiani hanno ordinato il rientro di persone trasferite nei centri di Shëngjin e Gjadër, contestando la detenzione fuori dall’UE e la classificazione di alcuni paesi come “sicuri”. Nell’agosto 2025 è intervenuta anche la Corte di giustizia dell’UE, richiamando i limiti della nozione di “paese sicuro”, soprattutto per i gruppi vulnerabili. Nonostante questo, il governo italiano ha ampliato l’uso delle strutture come hub di rimpatrio e nell’aprile 2025 ha trasferito 40 persone respinte nelle strutture albanesi. I Paesi Bassi, da parte loro, hanno firmato nel settembre 2025 una lettera d’intenti con l’Uganda per un progetto pilota che prevede un transito temporaneo in territorio ugandese di stranieri destinatari di rimpatrio quando il rientro diretto risulti impossibile. Il governo olandese assicura che l’intesa dovrà rispettare il diritto nazionale, europeo e internazionale e sarà costruita insieme all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Le critiche di Amnesty International e di altre organizzazioni si sono concentrate sul contesto ugandese, segnato da una recente stretta sulle politiche d’asilo e da tagli al finanziamento umanitario.
Il nuovo regolamento introduce obblighi specifici per le persone in posizione irregolare, tra cui la collaborazione con le autorità, la fornitura di documenti e dati biometrici, il divieto di ostacolare la procedura. In caso di mancata collaborazione, oltre alla detenzione e alle sanzioni penali, è previsto il ritiro di benefici e permessi di lavoro. Per le persone considerate rischio per la sicurezza, il divieto d’ingresso potrà essere superiore a dieci anni o, in casi particolari, indeterminato. Parallelamente, l’estensione delle categorie di “paese terzo sicuro” e “paese d’origine sicuro” dovrebbe accelerare esami e allontanamenti, anche se le valutazioni individuali restano previste e ancora da definire nei dettagli. Le ONG temono che le nuove norme portino a una detenzione più frequente e prolungata, soprattutto per famiglie e minori. La FRA ha precisato che eventuali trattenimenti negli hub extra-UE devono avvenire con limiti chiari, controlli indipendenti e assenza di automatismi.
Le critiche delle organizzazioni per i diritti sono state nette. Amnesty International parla di un “nuovo minimo” degli standard europei, di una “insistenza miope” su deportazioni e detenzioni e di hub “crudele e impraticabile”. Oltre duecento organizzazioni coordinate da Human Rights Watch hanno denunciato il rischio di detenzione automatica, refoulement diretto e indiretto e creazione di aree fuori dalla giurisdizione europea. Anche sul piano giuridico emergono molte incognite. La Corte di giustizia dell’UE ha ricordato che la qualifica di “paese sicuro” deve essere verificata caso per caso, e vari tribunali nazionali hanno già contestato detenzioni extraterritoriali considerate prive di base legale. La conseguenza potrebbe essere un aumento del contenzioso, centri semi-vuoti e procedure sospese.
Per controbilanciare la stretta, i ministri hanno confermato un meccanismo di solidarietà verso gli Stati più esposti alle rotte del Mediterraneo. Il “pool” per il 2026 prevede ricollocamenti, contributi finanziari e supporto operativo. Una stima circolata nelle ore del Consiglio parla di 430 milioni di euro, cifra modulabile nell’attuazione del Patto. Il punto cruciale sarà la capacità di usare queste risorse per rafforzare accoglienza, procedure e integrazione per chi ha diritto, evitando che tutto si riduca solo a strumenti di controllo.
Il nuovo quadro nasce dopo un decennio di crisi ricorrenti, negoziati falliti e tensioni tra Stati membri. Dal 2015 l’Unione ha alternato solidarietà e chiusure senza costruire un sistema realmente comune. La pressione politica della destra e dell’estrema destra, insieme ai risultati elettorali, ha spostato il baricentro verso un modello basato sull’enforcement e sulla deterrenza, anche a costo di spostare la gestione fuori dai confini dell’Unione. L’esperienza degli ultimi anni, però, dal modello albanese a iniziative sperimentate da altri Paesi occidentali, mostra che l’efficacia non è garantita e che i costi economici e reputazionali possono essere significativi.
Ora la discussione passa al Parlamento europeo. I tre dossier entreranno nei triloghi con la presidenza di turno e la Commissione europea. Le capitali puntano a chiudere rapidamente per rispettare la data del 12 giugno 2026, ma i nodi rimangono: definizione operativa degli hub e sistemi di controllo, criteri per l’elenco dei paesi sicuri, limiti alla detenzione soprattutto per famiglie e minori, sostenibilità dei costi e responsabilità in caso di violazioni. Le prossime settimane diranno se la priorità sarà la rapidità o la qualità delle norme. Nel frattempo, il messaggio politico è chiaro: l’Europa del 2025 si prepara a spostare la gestione delle sue politiche migratorie oltre i suoi confini, ampliando il raggio delle sue decisioni e ridisegnando il rapporto tra protezione, controllo e responsabilità.
Fonti utilizzate: Commissione europea, Consiglio dell’Unione Europea, Parlamento europeo, Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali (FRA), Amnesty International, Human Rights Watch, Corte di giustizia dell’Unione Europea, Governo italiano, Governo dei Paesi Bassi, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
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