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Milleri, ad di Luxottica indagato per la scalata a Mediobanca. Insieme a lui anche Caltagirone e Lovaglio

Perquisizioni, avvisi di garanzia e un’accusa pesante: cosa c’è davvero nell’inchiesta milanese che rimette in discussione l’operazione più controversa degli ultimi anni

Mps, Mediobanca e l’ombra lunga di Generali: tre indagati e un risiko che torna a scuotere la finanza italiana

Da sinistra: Caltagirone, Milleri e Lovaglio

All’alba, a Siena, una porta blindata si apre e gli uomini della Guardia di Finanza entrano negli uffici del Monte dei Paschi di Siena, portando via faldoni, duplicando telefoni, notificando un avviso di garanzia direttamente nella stanza dell’amministratore delegato. È il primo fotogramma dell’indagine più sensibile sul risiko bancario italiano degli ultimi anni: l’operazione con cui Mps ha preso il controllo di Mediobanca e, tramite Piazzetta Cuccia, si è ritagliata un ruolo cruciale nell’azionariato delle Assicurazioni Generali. Sul registro degli indagati finiscono tre nomi che pesano: Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri e Luigi Lovaglio. Le accuse ipotizzate sono aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, mentre tra le persone giuridiche compaiono Gruppo Caltagirone e Delfin, la cassaforte della famiglia Del Vecchio, presieduta dallo stesso Milleri.

Secondo la Procura di Milano, i sostituti Roberto Pellicano, Luca Gaglio e Giovanni Polizzi stanno ricostruendo se dietro l’ops lanciata da Mps su Mediobanca nel 2025 – un’operazione valutata tra 13,5 e 16 miliardi tra carta e cassa – ci sia stato un coordinamento informale fra banca e grandi investitori, mai dichiarato al mercato né alle autorità: Consob, Bce, Ivass. L’ipotesi affiora nelle carte: un patto di fatto, non comunicato, e una gestione informativa considerata idonea a integrare manipolazione del mercato e ostacolo alle funzioni di vigilanza.

Un tassello centrale risale al 13 e 14 novembre 2024, quando il Mef avvia un accelerated bookbuilding per cedere il 15% di Mps, ampliando il collocamento per l’elevata domanda. Quattro soggetti si aggiudicano l’intero pacchetto: Banco Bpm (5%), Anima (3-4% nelle diverse ricostruzioni), Gruppo Caltagirone (3,5%) e Delfin (3,5%). È proprio la simultaneità degli acquisti di Caltagirone e Delfin, insieme all’ascesa successiva in Mps e in Mediobanca, a diventare oggi un punto interrogativo che i pm collegano all’assetto finale del takeover su Piazzetta Cuccia.

Il movente industriale è noto: la spinta del governo a ricomporre un perimetro “nazionale” nella finanza, la privatizzazione progressiva del Monte dopo il salvataggio del 2017, la risalita di Mps sotto la regia di Lovaglio, la crescente presenza di investitori italiani attorno a Mediobanca e Generali. Tra gennaio e settembre 2025, l’offerta osteggiata da ambienti politici e inizialmente mal digerita ai piani alti di Mediobanca supera gli scogli regolatori e ottiene il via libera della Bce, con incentivi cash stimati intorno ai 750 milioni. La vittoria segna anche l’uscita di scena dello storico ceo, Alberto Nagel, e ridisegna gli equilibri di comando della finanza italiana.

Il fronte penale, però, resta un’altra cosa. I pm vogliono capire se Caltagirone e Delfin, già protagonisti nel 2024 in Generali, abbiano agito su un doppio binario: prima costruendo posizioni rilevanti nel capitale Mps attraverso l’ABB di novembre, poi sostenendo l’offerta su Mediobanca. Se gli accordi fossero stati più coordinati di quanto dichiarato, la mancata comunicazione di un patto parasociale o di fatto potrebbe trasformare un’operazione finanziaria in un caso di manipolazione informativa.

Il 27 novembre 2025 gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria entrano nella sede del Monte con un decreto di perquisizione: computer, telefoni, documenti, tutto finisce sotto sequestro. A Luigi Lovaglio viene notificato l’avviso di garanzia. La banca risponde con una nota ufficiale, rivendica la correttezza dell’operato e annuncia “piena collaborazione” con la Procura. Ma in Borsa la linea scende a precipizio: Mps cede oltre il 6-7% intraday, chiude a circa -4,5%; male anche Mediobanca, che oscilla tra -1,9% e -2,9%. Nel complesso, l’asse Mps–Mediobanca perde oltre un miliardo e mezzo di capitalizzazione in poche ore.

Dalla sponda degli investitori “privati” arrivano prese di posizione nette: l’entourage di Caltagirone e Delfin parla di totale estraneità ai fatti contestati. Ma il clima resta sospeso: il confine tra strategia finanziaria legittima, trasparenza e possibili accordi non dichiarati rimane sottile, e saranno le carte a decidere dove passa davvero la linea.

Il nodo del bookbuilding del 2024 torna prepotente: un collocamento chiuso a un premio del 5% rispetto al mercato – eccezione che gli inquirenti vogliono capire – gestito da Banca Akros, che ha più volte rivendicato la regolarità della procedura e la partecipazione di “centinaia di investitori istituzionali”. La simultaneità degli acquisti di Caltagirone e Delfin resta una costante nel ragionamento dei pm, che la ricollegano alla traiettoria 2025 del takeover su Piazzetta Cuccia e al rafforzamento delle posizioni successive in Generali e Mediobanca.

Le accuse prese una per una raccontano una posta alta. Aggiotaggio significa alterazione artificiale dei prezzi o diffusione di informazioni fuorvianti tali da condizionare il mercato. Ostacolo alla vigilanza implica omissioni o comunicazioni incomplete verso Consob, Bce e Ivass. Anche qui, nessuna certezza: i legali degli indagati insistono sulla piena legittimità delle operazioni, sulla tracciabilità dei movimenti e sull’assenza di qualunque patto. La verità, come sempre, scorrerà attraverso email, chat, documenti e catene decisionali scandagliate dagli investigatori.

Il risiko tra Mediobanca e Generali ha radici profonde. Da anni il confronto tra i modelli di governance del Leone vede incrociarsi il perimetro di Piazzetta Cuccia e l’attivismo di investitori italiani che contestano strategie e leadership. Nel 2025, tra assemblee rinviate, richieste di chiarimenti e nuove partecipazioni, si misura una partita che va oltre il perimetro societario: riguarda il controllo dei centri nevralgici del risparmio italiano.

La reazione del mercato conferma la fragilità del sistema quando entra la variabile giudiziaria: volatilità alta, investitori nervosi, dossier europei riaperti. Le prossime settimane serviranno per analizzare i device sequestrati, ricostruire le decisioni interne alle società coinvolte e verificare le comunicazioni arrivate – o mai arrivate – alle autorità di vigilanza. Anche la Bce, che ha autorizzato il deal pur sollevando rilievi, torna indirettamente in scena, perché eventuali omissioni informative potrebbero riaprire il dialogo con Francoforte.

Intanto i tre indagati restano al centro del vortice. Caltagirone, uno dei maggiori imprenditori italiani, spinto nel 2025 fino all’8% del capitale di Generali. Milleri, presidente di Delfin e amministratore delegato di EssilorLuxottica, ponte tra industria e finanza. Lovaglio, il banchiere che ha guidato il rilancio del Monte portandolo al take over più audace della sua storia recente.

Sul piano penale rischiano soprattutto se emergeranno prove di coordinamento non dichiarato o informazioni incomplete verso i vigilanti. Sul piano amministrativo, possibili sanzioni Consob, contestazioni degli investitori e, se emergessero vizi procedurali, una revisione degli atti autorizzativi. Per ora, le versioni ufficiali restano blindate: Mps parla di correttezza, Delfin e l’area Caltagirone di regolarità e trasparenza.

Il punto vero è che la vicenda ridefinisce chi orienta la governance dei campioni nazionali della finanza, misura la tenuta del sistema di vigilanza e incide direttamente su risparmiatori e fondi italiani, che assorbono ogni scossone regolatorio nei valori di portafoglio. Per questo l’indagine milanese non riscrive soltanto la cronaca di un takeover: riapre il dossier, molto più ampio, del rapporto tra potere finanziario, regole e trasparenza. Un banco di prova che riguarda non solo gli indagati, ma l’intero ecosistema del mercato italiano.

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