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27 Novembre 2025 - 21:31
Putin azzera il tavolo: “Zelensky è illegittimo” e la diplomazia si blocca
Sul palco di Bishkek (Kirghizistan), sotto i lampadari opachi della sala congressi dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, con le delegazioni irrigidite come statue e lo sguardo puntato sul leader del Cremlino, Vladimir Putin ha impugnato un’arma vecchia quanto la diplomazia: le parole trasformate in minaccia. «Con le attuali autorità di Kyiv è inutile firmare qualunque cosa», ha scandito, marchiando come “illegittimo” il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Una frase chirurgica, non un esercizio di retorica, perché inserisce nel negoziato una clausola-veto che di fatto congela la fragile pista diplomatica riaperta nelle ultime settimane, proprio mentre la Casa Bianca prepara l’invio a Mosca dell’emissario Steve Witkoff per discutere la bozza americana originariamente articolata in 28 punti, poi compressi — dopo la revisione con Kyiv e Unione Europea — in 19 capitoli giudicati più coerenti con gli interessi occidentali e meno docili verso il Cremlino. Ma Putin non ha offerto alcuna alternativa russa, nessun dettaglio su come intenda avvicinare le proposte statunitensi al quadro europeo: ha preferito alzare il prezzo, chiedendo persino il ritiro di unità delle Forze Armate ucraine da specifiche posizioni al fronte come precondizione per un cessate il fuoco.

Bishkek è la capitale del Kirghizistan, Paese dell’Asia Centrale, situato a nord della catena del Tien Shan e confinante con Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Cina.
La questione della presunta mancanza di “legittimità” è la nuova trincea giuridica scavata da Mosca nel cuore della guerra. Per il Cremlino, la mancata convocazione delle presidenziali durante la legge marziale avrebbe fatto decadere il mandato di Zelensky. La replica di Kyiv è l’esatto opposto: la Costituzione ucraina e le norme emergenziali, in tempo di guerra, vietano le consultazioni e prorogano i mandati per garantire continuità istituzionale. Definire “illegittimo” il capo dello Stato ucraino è dunque un modo per insinuare che qualunque sua firma sia facilmente contestabile, preparando così il terreno a futuri strappi russi e obbligando gli alleati occidentali a costruire garanzie extraucrainocentrate che Mosca potrà contestare successivamente. Gli analisti che monitorano la postura russa osservano che questa narrazione, più che un’argomentazione giuridica, è un dispositivo politico per logorare a monte la validità di un eventuale accordo.
La mossa arriva mentre Washington e Kyiv lavorano da settimane a una bozza in 28 punti trasformata poi in un documento più snello fatto di 19 capitoli, frutto anche delle pressioni dell’Unione Europea. La prima versione era stata criticata da più parti: conteneva limitazioni militari all’Ucraina, ipoteche sull’ingresso nella NATO, e di fatto una tacita accettazione del controllo russo su porzioni di territorio occupato. La bozza europeizzata rimette invece sul tavolo alcuni cardini: cessate il fuoco come premessa, nessun veto russo sulla sicurezza euroatlantica e uso degli asset sovrani russi congelati come base della futura ricostruzione.
In questo quadro, il nome che entra in scena è quello dell’inviato statunitense Steve Witkoff, un imprenditore immobiliare trasformato in emissario speciale sulle questioni più sensibili della politica estera americana. Fonti russe annunciano il suo arrivo a Mosca “entro la prossima settimana”, con all’ordine del giorno la bozza aggiornata targata USA. La sua figura divide: non è un diplomatico, le sue conversazioni trapelate hanno lasciato intendere aperture discusse verso il Cremlino e la sua inesperienza nel linguaggio delle cancellerie internazionali è oggetto di critica. Eppure è la sua visita che Mosca considera il vero semaforo verde dell’interlocuzione con Washington.
Il 27 novembre 2025 Putin ha costruito un discorso in tre strati. Ha insinuato l’illegittimità delle autorità ucraine, trasformando ogni firma proveniente da Kyiv in carta straccia. Ha definito “promettente” il canovaccio USA–Ucraina, ma solo sul piano teorico, senza assumere alcun impegno. Ha rilanciato una richiesta militare: ritiro di unità ucraine da precise aree avanzate come anticamera del cessate il fuoco, legando così la diplomazia al riconoscimento del controllo russo sui territori occupati. Una triangolazione pensata per spostare il focus dal contenuto dell’intesa alla forma, cioè alla legittimità del firmatario. È un modo per evitare di pronunciarsi sulla bozza in 19 punti, per guadagnare margini sul terreno e per presentarsi alla comunità internazionale come parte “ragionevole” disposta al dialogo, ma solo a condizioni che ribaltano la posizione negoziale di Kyiv.
Intanto, Bruxelles ha risposto con una controproposta sostanziale: cessate il fuoco come condizione iniziale, nessun potere di veto russo sull’adesione dell’Ucraina alla NATO e un principio netto riguardo agli asset russi congelati. Le versioni ufficiose includono anche ipotesi su corridoi di navigazione lungo il Dnepr, sulla sicurezza della centrale di Zaporizhzhia e sulla diga di Kakhovka. A prescindere dalla loro accuratezza, il messaggio europeo è chiaro: nessuna ratifica delle conquiste territoriali russe senza una cornice giuridica e politica che ristabilisca il diritto internazionale.
Da Bankova, sede della presidenza ucraina, arriva la stessa linea rossa di sempre: nessuna cessione territoriale, garanzie di sicurezza reali modello Articolo 5, giustizia per i crimini di guerra. La società civile ucraina, rappresentata anche dalla Nobel Oleksandra Matviichuk, ha definito “immorale” e “inaccettabile” l’ipotesi — poi stralciata — di una vasta amnistia. Per Kyiv, il margine negoziale riguarda solo il percorso verso il cessate il fuoco, non la rinuncia alla sovranità né l’archiviazione dei crimini.
Nel diritto internazionale contemporaneo, il “chi firma” ha lo stesso peso del “che cosa si firma”. La legittimità del capo di Stato è un prerequisito perché un accordo sia opponibile e vincolante. Se passasse la dottrina russa dell’“illegittimità”, si creerebbe il precedente per cui un aggressore può decidere quali rappresentanti della controparte siano considerati validi. Per questo istituti di ricerca occidentali e giuristi ucraini definiscono l’impostazione russa un costrutto politico vestito da argomento legale.
Mentre ci si accapiglia sui testi, il fronte continua a muoversi. Mosca alterna segnali retorici a nuove spinte tattiche, mentre Kyiv avverte che qualunque pausa priva di garanzie diventa un regalo al riarmo russo. In questo scenario, l’arrivo di Witkoff è un test cruciale per due interrogativi: fino a che punto Washington difenderà le linee rosse europee nella bozza aggiornata, e fino a che punto il Cremlino è interessato a un compromesso vero o punta invece a trascinare un “negoziato infinito”. Tutto ciò mentre i bilanci pubblici degli alleati occidentali sono sotto stress, gli elettorati mostrano segni di stanchezza e una Russia sotto 19 pacchetti di sanzioni ha comunque adattato la propria economia allo sforzo bellico.
Nel magma delle bozze rimangono punti certi e zone d’ombra: limitazioni alla forza militare ucraina discusse nella versione a 28 punti, ma contestate dall’UE; lo stop a qualunque veto russo sulla NATO difeso da Kyiv; la questione dei territori occupati riformulata intorno al principio del cessate il fuoco; l’ipotesi di amnistie generali, ora accantonata; la spinta europea per usare gli asset russi congelati. Tutti elementi cruciali, tutti potenziali detonatori.
Le incognite attorno alla missione Witkoff restano altissime. Sarà determinante capire se gli USA ribadiranno l’obiettivo di una pace “giusta e sostenibile”, se Mosca accetterà di trattare sulla cornice europea o tenterà di tornare alla bozza più favorevole a sé, e se verrà definita una sequenza chiara tra cessate il fuoco, monitoraggio, tutela dei civili e sicurezza futura. Le sue missioni precedenti a San Pietroburgo e Mosca non hanno generato svolte, ma hanno aperto canali utili per scambi di prigionieri e passaggi preliminari di testo. Stavolta il margine d’errore è quasi nullo: una pace imperfetta potrebbe lasciare in eredità linee di demarcazione instabili, riconoscimenti ambigui e amnistie destinate a esplodere.
Il punto politico resta cristallino. Putin ha introdotto una variabile nuova: non basta più litigare sul contenuto dell’accordo, ora bisogna discutere chi ha il diritto di firmarlo. Un cambio di campo pensato per parlare alla diplomazia, ma anche al pubblico interno russo, a cui il Cremlino vuole presentare un avversario screditato. Per l’Unione Europeae per Kyiv, la risposta non può essere solo giuridica: serve un fronte europeo coeso sui principi minimi, un asse stabile con Washington che renda la bozza in 19 punti una piattaforma solida e condivisa, e un sistema multilivello di garanzie — dai monitoraggi sul territorio alla protezione delle infrastrutture critiche — capace di reggere scossoni politici futuri.
Il negoziato resta formalmente aperto, ma lo spazio utile si assottiglia a vista d’occhio. Se la visita di Witkoffconfermerà l’impianto europeizzato e se Mosca accetterà di misurarsi con quella base, i paragrafi delle bozze torneranno a scorrere. Se invece prevarrà la dottrina dell’“illegittimità”, la diplomazia rischia di sprofondare nell’immobilismo, e a parlare, ancora una volta, saranno i numeri del campo.
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