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Lascia i fiori sul campo da basket dov'è morto il figlio a 15 anni, qualcuno li strappa da mesi. E' l'abisso della crudeltà

La risposta anonima al messaggio di una madre in lutto scatena indignazione sui social

Lascia i fiori sul campo da basket dov'è morto il figlio a 15 anni, qualcuno li strappa da mesi. E' l'abisso della crudeltà

Ogni giorno, da otto anni, una madre si ferma all’ingresso di un campetto da basket in via Dezza, a Milano, e posa un girasole. Un gesto semplice, ostinato, che tiene vivo il ricordo di Alessandro Meszley, il figlio di 15 anni stroncato nel 2017 da un malore improvviso proprio lì, su quel campo dove stava facendo ciò che amava: giocare a basket. È la sua piccola ritualità per continuare a respirare in un mondo che si è spezzato per sempre. Eppure, da mesi, qualcuno strappa quei fiori. Li sradica come se fossero un fastidio, non il filo sottile a cui resta aggrappata una madre che non smette di cercare il proprio bambino.

Così lei ha provato a spiegarsi, lasciando accanto all’ultimo girasole un biglietto che non chiede nulla se non un minimo di umanità: “Non strapparmi. Non mi sono più rialzato dopo essere caduto su questo campo. Questo girasole mi ricorda. Grazie, Alessandro”. Quel foglietto però non è rimasto intatto. Una mano anonima lo ha imbrattato, cancellando il pudore e superando il limite che separa il maleducato dallo spietato: “Se tutti mettono un fiore per ogni morto, Milano sarebbe una pattumiera”.

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È difficile capire cosa ci sia di più squallido: se la frase sgrammaticata o il coraggio pavido di chi l’ha scritta senza farsi vedere. Ma a colpire non è l’italiano maltrattato. È la totale assenza di empatia, la crudeltà gratuita rivolta alla peggior tragedia che possa travolgere un essere umano. Strappare un girasole non è solo rompere un fiore: è infilare le dita nella ferita di una madre già dilaniata. È un gesto che racconta un’anima ridotta in macerie più di qualunque parola.

La vicenda, rilanciata dal Corriere della Sera e amplificata dalla pagina social La Giornata Tipo, è diventata uno specchio in cui Milano è costretta a guardarsi. Da un lato la vigliaccheria che sporca un biglietto scritto con la voce di un figlio perduto; dall’altro una città che ancora prova a reagire e che, in queste ore, invita chi può a portare un girasole su quel campetto. Non per fare numero, ma per rimettere un frammento di dignità dove qualcuno ha provato a sciuparla.

A quella madre, se mai dovesse leggere queste righe, non basteranno certo le parole. Ma è giusto dirglielo: non siamo tutti così. C’è chi vede quel girasole per ciò che è davvero: un ultimo appiglio, una forma di resistenza al dolore, un dialogo silenzioso con un figlio che non tornerà più. Sarebbe bello se nei prossimi giorni quel campo si riempisse di fiori. Sarebbe bello se il girasole diventasse il suo simbolo, il segno che una comunità può essere più forte della cattiveria di un singolo. E sarebbe ancor più bello se chi ha scritto quella frase si rendesse conto che l’unica vera pattumiera di questa storia non è Milano, ma l’angolo buio da cui ha scelto di parlare.

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