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25 Novembre 2025 - 17:58
Louvre, preso il “quarto uomo”: la Francia aspetta ancora i gioielli spariti
Fuori, lungo la Senna, il vento di novembre piega le bandiere come se volesse ricordare alla Francia il peso delle proprie fragilità. Dentro, nell’Apollon Gallery, restano soltanto il silenzio, le teche riparate e l’eco ancora viva di un affronto che ha ferito l’orgoglio nazionale. A poco più di un mese dal furto dei gioielli della Corona al Louvre, la Procura di Parigi parla finalmente di uno scatto in avanti: è stato arrestato l’uomo che gli inquirenti indicano come il quarto membro del commando entrato in azione il 19 ottobre 2025. Con lui, altre tre persone sono finite in custodia, figure considerate parte della rete che avrebbe sostenuto la preparazione o il dopo–furto. La conferma arriva dalla procuratrice generale Laure Beccuau, che parla di “quattro nuovi arresti” e ricompone con cautela la trama di un’operazione tanto breve quanto chirurgica.
Secondo le informazioni diffuse dagli uffici giudiziari, i fermati sono due uomini di 38 e 39 anni e due donne di 31 e 40 anni, tutti originari dell’Île-de-France. Tra loro, l’uomo ritenuto il “quarto” del gruppo che ha materialmente colpito all’interno del museo. Gli altri tre sembrano ritagliarsi ruoli minori ma non marginali: logistica, appoggi, spostamenti, supporto nel reperire mezzi o nello smistare informazioni. L’indagine, già segnata da fermi e da qualche ammissione parziale tra fine ottobre e inizio novembre, non ha però ancora raggiunto il suo obiettivo centrale: i gioielli restano scomparsi, come se la città li avesse inghiottiti.
I primi segnali concreti erano arrivati a fine ottobre, quando due uomini erano stati arrestati nella regione parigina: uno intercettato all’aeroporto Charles de Gaulle con un biglietto di sola andata verso una destinazione estera, l’altro individuato in un appartamento di Aubervilliers. Le accuse immediate erano state pesanti — furto in banda organizzata, associazione a delinquere — e la procuratrice Beccuau aveva parlato apertamente di “ammissioni parziali” e della presenza di tracce genetiche che ricollegavano almeno uno dei sospetti alla scena del crimine. Nei giorni successivi, cinque ulteriori fermi avevano aperto e chiuso piste nella banlieue, tre dei quali poi revocati: un mosaico in continuo riassestamento che mostrava la densità, ma anche la fragilità, delle connessioni tra quartieri popolari, magazzini anonimi e piccoli giri criminali.
La rapina di domenica 19 ottobre resta, nelle sue linee essenziali, un’operazione fulminea da manuale. Alle 9:30 del mattino, quattro uomini con gilet da operai e un furgone per traslochi dotato di piattaforma aerea raggiungono un punto della facciata del Louvre non pienamente coperto dalle telecamere. Con utensili da cantiere forzano un infisso, entrano nella Galerie d’Apollon, scardinano due vetrine e in meno di sette-otto minuti spariscono con otto pezzi dei gioielli della Corona. Durante la fuga perdono o abbandonano una delle corone, ritrovata danneggiata all’esterno. Le altre opere — diademi, spille, collane appartenute a figure come Marie-Louise, Eugénie, Marie-Amélie e Hortense de Beauharnais — si dissolvono nel nulla, portando via con sé un frammento prezioso dell’immaginario dinastico francese. Il museo viene evacuato e chiuso, mentre nelle sale resta soltanto il senso di una violazione irreparabile.
Da quel momento, la Brigade de répression du banditisme ricostruisce un puzzle di video, tracce biologiche, percorsi di arrivo e di fuga, incrociando telecamere cittadine, informazioni di intelligence, pedinamenti e perquisizioni. Aubervilliers e la Seine-Saint-Denis emergono come il retroterra naturale dei presunti responsabili, territori in cui magazzini, imprese di facciata e reti informali possono offrire rifugi rapidi, mezzi usa e getta, coperture temporanee. La Procura resta prudente e non accredita né complicità interne né la presenza di un grande mandante, anche se il profilo tratteggiato dagli investigatori parla di un gruppo preparato, disciplinato, capace di studiare con attenzione tempi, accessi e vie di fuga.
Il furto ha spalancato anche un’altra ferita, quella della sicurezza museale. La ministra della Cultura Rachida Dati ha parlato di una “sottovalutazione strutturale del rischio” e ha annunciato una revisione completa dei sistemi del Louvre: barriere fisiche, protocolli aggiornati, un potenziamento massiccio della videosorveglianza. La direttrice del museo, Laurence des Cars, ha definito l’accaduto “una terribile falla” e ha riferito di aver offerto le dimissioni, respinte dal ministero, mentre nelle audizioni parlamentari sono emersi dettagli inquietanti sui punti ciechi del perimetro del museo, esattamente dove i ladri hanno fatto leva. Il presidente Emmanuel Macron ha chiesto un’accelerazione nell’attuazione delle raccomandazioni già formulate in un audit precedente alla rapina, riconoscendo implicitamente che alcune vulnerabilità erano note da tempo.
La cronaca giudiziaria mette a fuoco anche il nodo più scomodo: dove siano finiti gli otto pezzi trafugati. Gli investigatori non nascondono la possibilità che siano già stati smontati, con le pietre preziose separate dalle montature storiche, un’eventualità che renderebbe quasi impossibile il recupero. La Procura e il Ministero della Cultura insistono sulla loro invendibilità come oggetti integri, ma la storia dei grandi furti d’arte europei suggerisce che il mercato parallelo, tra collezionismi clandestini e reti transnazionali, ha sempre trovato modi per occultare l’inocultabile. Anche per questo, gli appelli alla restituzione — anonima, se necessario — non sono pura retorica.

Il fermo del presunto “quarto uomo” offre però agli investigatori una leva importante. Potrebbe infatti permettere di ricostruire nel dettaglio la divisione dei ruoli all’interno del commando, comprendere chi ha forzato l’ingresso, chi ha operato sulle vetrine, chi ha gestito i veicoli di fuga. Ma soprattutto potrebbe aprire la mappa delle complicità successive: chi ha fornito gli attrezzi, chi ha prestato mezzi o documenti, chi ha garantito coperture logistiche, chi ha movimentato contanti o pietre preziose. Sul tavolo degli inquirenti ci sono tabulati telefonici, movimenti bancari, geolocalizzazioni e incroci di telecamere che potrebbero, ora, prendere un senso nuovo.
Il caso Louvre diventa così anche un test per il futuro, una lezione amara sulla necessità di musei capaci di bilanciare apertura e protezione. Le misure annunciate — nuovi sensori, barriere, termocamere, coperture senza zone d’ombra, personale addestrato a reagire non solo a emergenze terroristiche ma a intrusioni “low tech” — segnano una direzione di marcia che potrebbe diventare un modello europeo. La Commissione Cultura del Senato ha già indicato che la sicurezza non è solo tecnologia, ma cultura organizzativa: turni, manutenzione, saturazione degli spazi, capacità di leggere i rischi e non lasciarsi sorprendere da operazioni tanto semplici quanto devastanti.
Intanto resta aperto anche il capitolo delle responsabilità interne. Nessuno è formalmente accusato, ma alcune fonti governative parlano di “ritardi storici” nell’adeguamento dei dispositivi di sicurezza. Des Cars ha spiegato che, al suo arrivo, aveva trovato un sistema da riorganizzare, orientato più alle minacce terroristiche che alle intrusioni fisiche. Saranno gli audit dei prossimi mesi a stabilire quanto abbiano inciso le scelte gestionali e quanto l’azzardo di un gruppo criminale abituato a operare con rapidità e precisione.
Oltre il valore assicurativo degli 88 milioni di euro, gli storici dell’arte ricordano che ciò che è stato sottratto non è un bottino, ma una pagina di storia fatta di dinastie, tecniche orafe, simboli di potere e di rappresentazione. Restituire quei gioielli significherebbe restituire alle teche un racconto che la rapina ha brutalmente interrotto. Non è solo questione di mercato, ma di identità culturale.
Nei prossimi giorni è attesa la formalizzazione delle imputazioni per i quattro nuovi fermati, mentre gli investigatori continueranno a cercare il luogo in cui il bottino potrebbe essere stato nascosto o smontato. Si parla di capannoni nella periferia parigina, di garage anonimi, di contatti con reti di ricettazione internazionali, di movimenti sospetti nei laboratori di taglio delle pietre preziose. Se la squadra operativa è ormai quasi interamente identificata, il passo successivo sarà definire il sistema che ha reso possibile un colpo tanto rapido, e comprenderne la catena discendente, dagli attrezzi ai passaggi di denaro.
Il furto al Louvre non è soltanto un episodio di cronaca nera: è un promemoria della fragilità delle istituzioni culturali in contesti urbani complessi. Ogni museo del mondo osserva con attenzione questa indagine perché, oltre il prestigio del Louvre, c’è un tema universale: come proteggere i simboli senza trasformare i luoghi dell’arte in fortezze. In attesa di sapere se gli otto pezzi torneranno al loro posto, la certezza è che il cerchio dell’indagine si stringe. E che ciò che è accaduto in sette minuti potrebbe essere compreso, e forse riparato, grazie a settimane di lavoro, a un metodo ostinato e — come sempre nelle grandi cacce al tesoro della storia — a un filo di fortuna.
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