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Washington annuncia la pace, Kyiv frena, Mosca osserva

Un’intesa “di principio”, un lessico diplomatico in collisione e un negoziato che si sposta ad Abu Dhabi. Tra fughe in avanti di Washington e prudenza ucraina, ecco cosa c’è davvero (e cosa manca) nel dossier più delicato d’Europa

Washington annuncia la pace, Kyiv frena, Mosca osserva

Washington annuncia la pace, Kyiv frena, Mosca osserva

Le porte scorrevoli dell’hotel di Abu Dhabi non hanno il tempo di chiudersi. Si aprono in continuazione, una cadenza quasi ipnotica, mentre funzionari americani, russi e ucraini si incrociano senza mai sfiorarsi, come se un tacito protocollo imponesse distanze millimetriche. Dentro, un silenzio teso, fatto di passi trattenuti e telefoni che vibrano. Fuori, riflessi di vetro che raccontano la vigilia di un accordo che forse c’è, forse no, forse è solo un’ombra che si muove più veloce delle conferme ufficiali.

È qui, nella capitale emiratina, che il fragile negoziato tra Ucraina, Stati Uniti e, indirettamente, Russia ha trovato un nuovo punto di approdo. Dopo il round di Ginevra, dove i 28 punti originali del piano americano sono stati drasticamente ridotti a 19, un alto funzionario di Washington ha confidato alla stampa statunitense che Kyiv avrebbe già detto sì al nuovo quadro. Una formula che ha innescato un entusiasmo immediato negli Stati Uniti, quasi che la pace fosse a portata di firma. Ma da Kyiv, poche ore dopo, è arrivata una frenata glaciale: «C’è ancora molto lavoro da fare». Una frase che pesa come una montagna e che smonta, in un istante, la narrazione ottimista dei diplomatici americani.

La verità, come sempre in diplomazia, vive nelle crepe tra un comunicato e l’altro. Ed è in quelle crepe che si capisce cosa stia realmente succedendo. A Ginevra, dove il capo di gabinetto ucraino Andriy Yermak ha condotto una trattativa serrata insieme al segretario di Stato americano Marco Rubio, il piano statunitense è stato riscritto quasi da zero per rientrare nei limiti invalicabili di Kyiv. Sono spariti i passaggi che avrebbero imposto alla difesa ucraina una riduzione drastica del suo esercito, sono state cassate le formule che, nelle versioni preliminari, lasciavano intendere una normalizzazione delle conquiste territoriali russe. È scomparsa l’ombra, politicamente tossica, di una rinuncia preventiva alla NATO. Il nuovo testo, ora, parla di un’Ucraina che resta libera di decidere le proprie alleanze e che non è costretta a cedere nulla senza un confronto diretto tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump. Un faccia a faccia che, nelle intenzioni americane, dovrebbe diventare il momento della verità.

Il punto è che il tempo stringe. Gli Stati Uniti vogliono un risultato politico entro la fine del 2025: serve a rafforzare la leadership internazionale, serve a evitare un’escalation permanente in Europa, serve anche — e nessuno lo nasconde a Washington — a ricalibrare le risorse strategiche verso altre aree del mondo. Per questo l’US Army Secretary, Dan Driscoll, è atterrato ad Abu Dhabi con una delegazione incaricata di verificare se la Russia sia disposta almeno a considerare la bozza a 19 punti. Le fonti americane parlano di incontri “costruttivi”. Le fonti ucraine, più prudenti, dicono “interlocutori”. Le fonti russe, nelle rare ammissioni ufficiali, lasciano trapelare fastidio per le modifiche introdotte dagli Stati Uniti dopo Ginevra: in particolare per tutto ciò che cancella, o ridimensiona, vantaggi strategici che Mosca riteneva acquisiti.

Sergej Lavrov

Sergej Lavrov

È il motivo per cui Sergej Lavrov, commentando la notizia di un avvicinamento tra USA e Ucraina, ha tenuto il punto: niente conferme, nessun leak, nessun passo che anticipi un’analisi approfondita. Una presa di posizione rigida, che mostra quanto la Russia intenda usare le divergenze comunicative tra Kyiv e Washington per guadagnare tempo e migliorare la propria posizione negoziale.

In Europa, nel frattempo, è successo qualcosa che gli americani non avevano previsto. L’Unione Europea — inizialmente relegata a ruolo marginale — ha reagito con un contro-testo dettagliato che corregge, rinforza, riorienta parti cruciali del piano. Le capitali dell’E3 (Parigi, Berlino, Roma) hanno insistito sulla sovranità territoriale ucraina come cardine non negoziabile del documento, hanno chiesto garanzie di sicurezza modellate sullo spirito dell’articolo 5 della NATO e hanno proposto un esercito ucraino stabile e “ad alte capacità”, ben lontano dal ridimensionamento proposto nelle prime versioni americane. Hanno inoltre sollecitato un utilizzo più vincolato dei beni russi congelati, trasformandoli in pilastro della ricostruzione. La valenza politica è chiara: l’Europa non accetterà un accordo cucito solo su misura statunitense.

Sul terreno, però, la guerra continua e continua a influenzare il dossier. Mentre a Abu Dhabi si studiano virgole e sfumature, i missili russi hanno colpito infrastrutture energetiche in diverse regioni ucraine, con vittime civili. Allo stesso tempo, droni ucraini hanno raggiunto obiettivi militari in territorio russo, come segnalato da fonti internazionali. Tutto questo ridisegna ogni giorno le pressioni sui negoziatori. La diplomazia non riesce a correre alla stessa velocità del conflitto. E il rischio è che ogni giorno di guerra renda più difficile la firma di un accordo che non appaia, a una delle parti, come una resa mascherata.

Per l’Ucraina, infatti, il punto dei territori resta la linea più esplosiva. La bozza a 19 punti rinvia la questione a un confronto diretto tra i capi di Stato. Ma è evidente che nessun presidente ucraino può permettersi di riconoscere perdite imposte con la forza. Non dopo migliaia di morti, città distrutte, intere regioni bombardate. Non dopo Bucha, Mariupol, Kherson. Per questo la formula americana è stata modificata: non ci sarà nessuna cessione preventiva nel testo; saranno i leader, e solo loro, a discutere modalità e possibili condizioni.

Per gli Stati Uniti, portare a casa un accordo-cornice è una priorità politica. Per l’Europa, è una questione di sicurezza esistenziale. Per la Russia, è la possibilità di cristallizzare a proprio vantaggio parte dei successi militari ottenuti. Per Kyiv, è questione di sopravvivenza.

Nei prossimi giorni tutto ruoterà attorno a due incognite: il viaggio di Volodymyr Zelensky a Washington e la risposta russa al percorso avviato a Ginevra e proseguito ad Abu Dhabi. Se gli Stati Uniti convocheranno il presidente ucraino per “la prima data utile di novembre”, come filtrato da ambienti diplomatici, vorrà dire che i nodi fondamentali sono stati almeno incorniciati. Se invece la Russia continuerà a prendere tempo, tutto rischia di slittare ancora una volta.

E tuttavia, questa volta, qualcosa suggerisce che potremmo essere più vicini a un accordo rispetto ai tentativi precedenti. L’allineamento tra Stati Uniti ed Europa è più solido rispetto a mesi fa. L’Ucraina ha difeso le proprie linee rosse senza rompere il tavolo. Washington sembra meno interessata a paci “imposte” e più propensa a compromessi sostenibili. La Russia, da parte sua, è costretta a fare i conti con i limiti della sua capacità di proiezione militare prolungata. È un incastro fragile, ma è pur sempre un incastro.

Nella fotografia di oggi, 25 novembre 2025, c’è un accordo di principio tra Stati Uniti e Ucraina, ma non ancora un accordo politico. C’è un negoziato vivo con la Russia, ma non una sua adesione. C’è una bozza, ma non la firma. E dunque c’è una parola che ricorre nelle conversazioni di Abu Dhabi: “prudenza”. Il negoziato avanza, ma lo fa come chi cammina su un pavimento appena verniciato: ogni passo dev’essere calcolato, ogni dichiarazione pesa, ogni fuga in avanti rischia di far saltare l’equilibrio.

Per ora la pace resta un’ipotesi credibile, ma fragile. È scritta, sì, ma ancora a matita. Quando — e se — verrà ripassata a penna, dipenderà da ciò che accadrà nelle prossime settimane.

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