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Esteri
24 Novembre 2025 - 16:59
“Sono tornati a casa scalzi e infangati”. Nel villaggio di Papiri, nel cuore del Niger State, la scena che si apre all’alba è una ferita collettiva: quaderni strappati, zaini vuoti, ciabatte disperse nella corsa. I bambini che riescono a parlare ricordano appena la direzione da cui sono fuggiti. È qui che venerdì 21 novembre 2025 uomini armati hanno fatto irruzione nella St. Mary’s Catholic School, trascinando via studenti e insegnanti in quello che appare come uno dei più gravi sequestri scolastici degli ultimi anni in Nigeria. Le cifre sono state ritoccate più volte e sempre al rialzo: almeno 303 studenti e 12 membri del personale risultano rapiti. In mezzo a questo buio, un’unica breccia: 50 minori, tra la notte di venerdì e le prime ore di sabato, sono riusciti a scappare e a riabbracciare le famiglie. Oltre 250 persone, però, restano prigioniere delle bande che da anni imperversano nella boscaglia e che conoscono quelle strade meglio di chiunque altro.
Le prime conferme sono arrivate dalla Christian Association of Nigeria, la CAN, per voce del vescovo Bulus Dauwa Yohanna, che ha verificato sul campo la portata del rapimento. La notizia dei 50 fuggiti ha fatto rapidamente il giro del Paese. Il presidente Bola Ahmed Tinubu ha parlato di uno sforzo totale delle forze di sicurezza e ha rivendicato il rilascio dei 38 fedeli rapiti pochi giorni prima durante l’assalto a una chiesa del Kwara State. Ma a Papiri le aule restano vuote e il Niger State ha disposto la chiusura di tutte le scuole, segno di una vulnerabilità strutturale che non può essere ignorata.

La St. Mary’s Catholic School sorge in una zona dove i confini amministrativi sfumano nella boscaglia. Gli aggressori sono arrivati in gruppo, puntando ai dormitori nel momento di massima fragilità. Tra i rapiti ci sono bambini tra gli 8 e i 18 anni e 12 docenti. Alcuni ragazzi hanno tentato subito di fuggire: 88 sono stati ripresi e trascinati via, mentre 50 hanno trovato riparo nella savannah, raggiungendo villaggi vicini che li hanno riconosciuti e riportati a casa. Il rapimento si inserisce in una settimana di violenze diffuse: pochi giorni prima, 25 studentesse erano state sequestrate in Kebbi; nel Kwara, durante una funzione religiosa, uomini armati avevano rapito 38 fedeli poi liberati. Altri episodi sono stati segnalati in Zamfara e Borno. Un mosaico che mostra la fluidità dei gruppi criminali, spesso un mix di bande per il riscatto e cellule jihadiste, in territori dove lo Stato arriva poco e tardi.
Nelle prime ore dopo il sequestro i numeri non quadravano: inizialmente si parlava di 227 persone, poi la CAN ha corretto il dato a 315 dopo un censimento tra dormitori, registri e famiglie. La revisione, oltre a restituire proporzioni più accurate, conferma la gravità del caso: uno dei rapimenti scolastici più vasti dopo quello di Chibok, nel 2014.
La risposta dello Stato è stata immediata. Il governatore del Niger State, Mohammed Umar Bago, ha ordinato la chiusura delle scuole e un nuovo conteggio ufficiale con polizia e intelligence per evitare ulteriori confusioni. A livello federale, il presidente Tinubu ha annullato la sua partecipazione al G20 in Sudafrica per coordinare la risposta da Abuja. Esercito, polizia, DSS e NIA sono stati coinvolti in un’operazione multilivello che punta a individuare le piste dei rapitori prima che disperdano gli ostaggi in gruppi più piccoli.
Nel frattempo, da Eruku è arrivata la notizia della liberazione dei 38 fedeli della Christ Apostolic Church, un segnale importante ma non sufficiente. Le autorità non hanno chiarito se vi siano stati pagamenti, e la CAN ha parlato nei giorni scorsi di richieste di riscatto molto alte. Il recupero rapido di ostaggi è possibile quando il perimetro dei rapitori è ancora giovane e la catena di comando delle autorità resta stabile; ma la complessità del caso Papiri, con oltre 250 dispersi e un territorio ostile, rende ogni operazione più difficile.
I 50 studenti fuggiti, accolti con abbracci e lacrime, mostrano segni evidenti di fatica e trauma. Raccontano marce forzate a piedi nudi, gruppi divisi per confondere le tracce e spostamenti continui verso radure e zone boschive. Le famiglie accorse alla scuola vivono un’attesa straziante: qualcuno ha ritrovato i figli, molti altri no. Un padre, Amose Ibrahim, ha spiegato di aver cercato invano tre dei suoi bambini tra i superstiti. La fiducia che la comunità ripone nella scuola, intesa come spazio sicuro, subisce un colpo durissimo.
Il rapimento di massa segue una logica ormai fin troppo nota: colpire scuole, chiese, moschee e villaggi per ottenere ostaggi in gran numero, arma negoziale potente per ottenere riscatti. Non sempre c’è una matrice ideologica: spesso prevale il movente economico, in un contesto in cui i gruppi criminali si frammentano e ricompongono in base alle opportunità. Dal 2014 più di 1.500 studenti sono stati rapiti in attacchi simili. Nella maggior parte delle scuole, soprattutto quelle isolate, mancano sistemi di allerta, recinzioni attive, protocolli di evacuazione e reti di comunicazione ridondanti. A Papiri, inoltre, resta controversa la tempistica della riapertura della scuola: secondo alcune autorità sarebbe avvenuta senza autorizzazione formale. La CAN invita alla cautela, ma la zona tra Yelwa e Mokwa è un dedalo di sentieri dove le pattuglie arrivano tardi, e i rapitori si muovono veloci, spesso su motociclette guidate da conoscitori del territorio.
Il governo federale ha istituito una cabina di regia, dispiegato nuove unità tattiche in Kwara e posti di blocco mobili in Niger. Squadre miste di polizia e cacciatori locali battono la boscaglia cercando segnali utili, mentre l’esercito tenta di contenere il frazionamento degli ostaggi nelle prime 72 ore, fase critica in cui i gruppi armati consolidano il controllo o sondano canali di negoziazione. Ma restano problemi strutturali: servono più droni, una rete di comunità più coesa, sistemi di allerta offline, protocolli trasparenti e un monitoraggio continuo dopo ogni attacco. La prevenzione — con standard minimi pubblici, comunicazioni ridondanti, formazione e rapporti post-evento — è la chiave per spezzare il ciclo.
Intanto, sulla vicenda interviene anche la Santa Sede, con un appello del Papa alla liberazione immediata degli studenti e degli insegnanti. Le reazioni internazionali si moltiplicano, ma la temperatura reale della crisi si misura nei chilometri di boscaglia che separano gli ostaggi dalle loro case. In Nigeria la scuola è futuro, mobilità sociale, promessa di stabilità: quando diventa luogo di paura, l’impatto ricade su famiglie, comunità, economia.
La fuga dei 50 ragazzi è la sola notizia che permette al Paese di respirare, ma non basta. La chiusura delle scuole è un freno temporaneo, non una soluzione. Serve un piano realistico, radicato nel territorio, che unisca Stato e comunità nella difesa di ciò che la scuola rappresenta. Per ora restano i nomi, i volti sfocati delle foto sul cellulare, le madri sedute davanti all’edificio vuoto con lo sguardo oltre la recinzione. E resta una domanda semplice e terribile, che nessuno sa ancora come maneggiare: quando torneranno a casa gli altri?
Sappiamo con certezza che oltre 250 persone mancano all’appello e che 50 studenti sono fuggiti, conferme che coincidono con le verifiche della CAN e con le principali agenzie di stampa internazionali. Sappiamo anche che i 38 rapiti a Eruku sono stati liberati. Restano incerti, invece, l’identità esatta dei gruppi coinvolti, le modalità delle trattative e l’eventuale richiesta di riscatto per il caso Papiri. Le autorità mantengono il riserbo, ed è comprensibile: in un contesto dove ogni informazione può cambiare il destino di centinaia di vite, anche il silenzio diventa parte della strategia.
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