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Beirut sventrata: Israele elimina Haitham Ali Tabatabai e riapre la guerra nel cuore del Libano

Un raid chirurgico a Haret Hreik uccide Haitham Ali Tabatabai, mente militare di Hezbollah: la capitale torna bersaglio, l’equilibrio regionale salta, Israele sfida Teheran e Beirut teme il punto di non ritorno

Beirut sventrata: Israele elimina Haitham Ali Tabatabai e riapre la guerra nel cuore del Libano

Beirut sventrata: Israele elimina Haitham Ali Tabatabai e riapre la guerra nel cuore del Libano

Beirut, il bersaglio che non doveva tremare: l’uccisione di Haitham Ali Tabatabai riaccende il fronte nord. La capitale libanese si ritrova nel cuore della notte con un cratere al posto della sua consuetudine, catapultata di nuovo dentro una guerra che molti speravano fosse stata ricacciata oltre i confini del sud. Un lampo netto, chirurgico, squarcia il cielo sopra Haret Hreik, la periferia sud dove la vita scorre densa di traffico, spezie, ristoranti affollati e bandiere gialle della Resistenza islamica. Prima ancora delle sirene arriva l’odore di cemento sbriciolato, quel misto di polvere e metallo incandescente che segue ogni esplosione precisa. Poi, in meno di cinque minuti, i telefoni libanesi vibrano tutti insieme: l’attacco ha ucciso Haitham Ali Tabatabai, l’uomo che teneva in equilibrio l’ingranaggio militare di Hezbollah in uno dei momenti più delicati della sua storia.

Il Ministero della Sanità libanese conta cinque morti e ventotto feriti, ma il Paese intero capisce all’istante che c’è una sola cifra realmente decisiva. Per Tel Aviv e per Hezbollah, quel “uno” è il cuore del messaggio. È il 23 novembre 2025 e Beirut scopre brutalmente che la tregua informale seguita al cessate il fuoco dell’autunno 2024 non protegge più la capitale. Israele annuncia l’operazione con il tono clinico delle rivendicazioni militari. Hezbollah piange la perdita del suo dirigente più strategico. Due comunicazioni asciutte, separate da pochi minuti, che bastano da sole a far salire la temperatura lungo tutto il fronte nord, dall’Alta Galilea fino alla Beqaa.

Secondo la ricostruzione preliminare, l’attacco ha centrato un piano intermedio di un edificio civile usato come luogo di riunione. Missili guidati, forse due, forse tre, ma tutti con precisione millimetrica: la firma tipica di un’intelligence ravvicinata, il gesto di chi sa esattamente dove colpire per massimizzare il risultato e contenere il danno collaterale. Il quartiere, Haret Hreik, è la roccaforte simbolica della cosiddetta Dahieh, il perimetro identitario in cui Hezbollah ha costruito la sua narrazione dopo la guerra del 2006. Entrarci con un colpo mirato non è soltanto un’azione militare: è una lettura pubblica di quei codici di inviolabilità che, fino a oggi, avevano retto come tacito patto di deterrenza.

Colpire un dirigente di quel livello nella capitale segna un cambio di passo evidente. Non è il primo raid israeliano nell’area, ma è sicuramente il più politicamente sensibile. È un messaggio multilivello: a Hezbollah, per impedirne la riorganizzazione dopo le pesanti perdite del 2024; all’Iran, per ricordare che nessun uomo-ponte dell’asse regionale può considerarsi al sicuro; alla comunità internazionale, per ribadire che la strategia di contenimento sul fronte nord non è congelata ma dinamica, pronta a scattare quando si apre una finestra di opportunità. Per il movimento sciita, invece, l’eliminazione di Tabatabai rappresenta un colpo nella zona più sensibile della catena di comando, un punto da cui non si può far finta di non essere stati feriti.

Nato a Beirut nel 1968 da madre libanese e padre iraniano, Haitham (Haytham) Ali Tabatabai, conosciuto anche come Abu Ali Tabatabai, era l’incarnazione vivente della trasformazione di Hezbollah da milizia territoriale a struttura ibrida capace di proiettare forza ben oltre i confini nazionali. In Siria, Yemen e Iraq la sua impronta operativa è rimasta impressa come quella di un architetto silenzioso, fondamentale per l’addestramento delle milizie alleate, per la logistica transfrontaliera e per la diffusione delle tecnologie missilistiche che hanno ridisegnato gli equilibri balistici della regione. Dopo aver guidato la Forza Radwan, l’unità d’élite del movimento, era considerato negli ultimi mesi una sorta di capo di stato maggiore de facto, incaricato di ricostruire la prontezza operativa dopo le decapitazioni mirate del 2024. Washington lo aveva classificato già nel 2016 come “Specially Designated Global Terrorist” e aveva offerto fino a cinque milioni di dollari per informazioni utili alla sua localizzazione. Il suo nome, nella comunità di intelligence, compariva stabilmente accanto a quello dei comandanti più ricercati.

Il raid del 23 novembre sembra aver utilizzato armamenti a guida di precisione con una tempistica stretta tra individuazione e impatto. Il bersaglio, un appartamento utilizzato per riunioni operative, suggerisce la presenza di una fonte sul terreno o di un’attività di intercettazione continua. La localizzazione in un’area densamente popolata amplifica il peso della decisione politica: l’utilizzo di testate ridotte limita il numero di vittime collaterali, ma l’effetto simbolico resta enorme. Tra i cinque morti confermati, oltre a Tabatabai, Hezbollah identifica almeno altri quattro combattenti, un dettaglio che suggerisce la natura di vertice del meeting.

La reazione delle istituzioni libanesi è immediata e rabbiosa. Il Presidente Joseph Aoun parla di “aggressione” e invoca un’azione internazionale per fermare gli attacchi, consapevole che il Paese non può permettersi un conflitto esteso mentre affronta una crisi economica senza precedenti. Dal lato israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahuinsiste sulla necessità di impedire a Hezbollah di ricostruire la propria infrastruttura militare. Il movimento sciita definisce Tabatabai un “grande leader” e promette una risposta calibrata. La domanda, ora, è se essa sarà immediata e plateale oppure differita, asimmetrica, studiata per lasciare un’impronta ma non sfociare in un conflitto totale che nessuno degli attori, almeno formalmente, rivendica.

Per comprendere appieno l’impatto dell’eliminazione, occorre tornare al novembre 2024, quando un’intesa mediata dagli Stati Uniti aveva congelato il fronte israelo-libanese dopo più di un anno di ostilità seguite all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Da allora, la linea blu era rimasta permeabile ma governata da un equilibrio precario: droni, colpi di artiglieria sporadici, raid mirati, ma mai un affondo a Beirut. La scelta di riportare il conflitto dentro la capitale rappresenta quindi un salto di livello che rischia di erodere la già fragile architettura di contenimento costruita negli ultimi mesi. A sud del Paese, intanto, gli sfollati continuano a vivere sospesi tra l’incertezza e l’ansia di un conflitto che può riesplodere in qualunque momento.

La scomparsa di un dirigente operativo del peso di Tabatabai obbliga Hezbollah a ristrutturare rapidamente le sue catene interne. Negli ultimi mesi il movimento aveva già perso figure intermedie e senior e avrebbe ora il compito di distribuire funzioni tra il Consiglio Jihad e i comandanti territoriali. La sua struttura, costruita proprio per resistere agli shock e alla decapitazione mirata, può reggere, ma pagherà inevitabilmente un prezzo in frizioni, rallentamenti e riduzione temporanea della capacità offensiva in alcune aree. Il vero test sarà politico, nelle prossime settimane: funerali, mobilitazione pubblica, retorica e soprattutto la scelta del luogo della rappresaglia.

Dal punto di vista israeliano, l’eliminazione di Tabatabai racchiude tre linee di comunicazione: nessun luogo è sicuro; questo è il momento di colpire, mentre il nemico è costretto a riorganizzarsi; Teheran non deve interpretare la calma relativa degli ultimi mesi come indecisione. Non è secondario il fatto che, secondo diverse ricostruzioni, Washington non sarebbe stata informata preventivamente, segno di una crescente divergenza tattica tra Stati Uniti e Israele sulla gestione del dossier libanese. Gli americani temono un allargamento incontrollato del conflitto che destabilizzerebbe l’intera regione; gli israeliani, invece, ritengono che la minaccia di Hezbollah richieda una pressione costante e chirurgica.

Il Libano, già piegato da anni di default e collasso dei servizi pubblici, percepisce il raid come l’ennesima incrinatura nella sua fragile normalità. Ogni esplosione su Beirut è un colpo all’economia, alla fiducia e alla tenuta sociale di interi quartieri già provati. Nelle periferie del sud e della Beqaa, le famiglie ricominciano a convivere con quella sensazione di precarietà che sembrava sopita: la consapevolezza che, da un’ora all’altra, si possa essere costretti a fuggire, ricostruire, dimenticare, o semplicemente sopravvivere.

Ora, tutto si gioca su tre variabili e una costante che abbraccia la regione intera: la risposta di Hezbollah, che potrebbe scegliere tra la vendetta immediata o l’azione differita e invisibile; la strategia israeliana, che dovrà decidere se proseguire nella campagna di decapitazione dei vertici avversari; la postura dell’Iran e la mediazione statunitense, che potrebbe intensificarsi se Washington ritenesse imminente un vero spillover regionale. L’unica costante è l’incertezza, quella condizione sospesa in cui ogni attore tenta di ottenere vantaggi marginali senza superare il punto di non ritorno. L’eliminazione di Haitham Ali Tabatabai rientra perfettamente in questa logica, un colpo chirurgico dai potenziali effetti cumulativi. Ma in Medio Oriente, ogni mossa apre una nuova partita, mai una conclusione.

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