AGGIORNAMENTI
Cerca
Esteri
21 Novembre 2025 - 19:12
Pace o dignità: Trump ordina a Zelensky di consegnare mezzo Paese entro giovedì
Una stanza poco illuminata, il volto teso del presidente ucraino, e parole scandite lentamente: «Possiamo perdere la nostra dignità o rischiare di perdere un partner chiave». Nella notte del 21 novembre 2025, il messaggio video di Volodymyr Zelensky alla nazione fotografa meglio di qualunque analisi la stretta d’assedio su Kyiv. Da una parte ci sono quasi quattro anni di guerra, un Paese esausto, infrastrutture energetiche sotto attacco, inchieste per corruzione che lambiscono i palazzi del potere. Dall’altra c’è un documento in 28 punti, elaborato a Washington, che promette la fine delle ostilità con la Russia al prezzo di una riscrittura profonda della geografia e della sovranità ucraina. Sullo sfondo, il timer imposto dalla Casa Bianca: entro giovedì 27 novembre 2025, giorno del Thanksgiving, l’Ucraina deve dire sì o no al piano. Dopo quella data, secondo più fonti, una parte cruciale del sostegno americano – intelligence, canali di accesso agli armamenti, copertura diplomatica – potrebbe svanire o ridursi drasticamente.
L’architettura dell’ultimatum si è composta a tappe, nelle ultime quarantotto ore. A Kyiv il piano è stato consegnato dal segretario all’Esercito degli Stati Uniti, Daniel Driscoll, in un incontro che alcuni presenti descrivono come “molto diretto, senza fronzoli”. A coordinare la negoziazione c’è l’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, il mediatore scelto da Donald Trump per gestire il dossier ucraino. Il suo nome torna anche in un altro passaggio chiave: i contatti con Kirill Dmitriev, manager vicino al Cremlino, da anni fra le figure centrali della proiezione economica russa. È questo triangolo – Casa Bianca, negoziatore americano, emissari russi – che alimenta il sospetto, a Kyiv e nelle capitali europee, che alcuni passaggi del testo siano stati cuciti non solo sulla base degli interessi statunitensi, ma anche sulle richieste di Mosca.
Il cuore del documento è noto: ventotto punti che descrivono un cessate il fuoco legato a condizioni estremamente onerose per l’Ucraina. Il piano impone un tetto rigido alla dimensione delle Forze armate ucraine – circa seicentomila effettivi, contro stime attuali che oscillano fra gli ottocentomila e gli ottocentocinquantamila – con l’argomento che un esercito più snello e “difensivo” ridurrebbe il rischio di escalation e renderebbe la tregua più stabile. Alla riduzione quantitativa si accompagna però un vincolo strategico: la rinuncia, scolpita in Costituzione, all’ingresso nella NATO. L’Alleanza, a sua volta, dovrebbe formalizzare il divieto permanente di ammettere l’Ucraina e rinunciare al dispiegamento di truppe sul suo territorio. In altre parole, Kyiv verrebbe neutralizzata per legge, istituzionalizzando l’idea di “zona cuscinetto” che il Cremlino insegue da anni.
Ancora più pesante è il capitolo territoriale. Secondo il testo trapelato e ricostruito da diverse testate internazionali, Crimea, Donetsk e Luhansk verrebbero riconosciute de facto come territori sotto controllo russo; negli oblast di Kherson e Zaporizhzhia le linee del fronte si congelerebbero lungo l’attuale linea di contatto, trasformando la situazione militare del 2025 in un nuovo status politico. Una fascia demilitarizzata, posta nell’area di Donetsk, sarebbe formalmente priva di truppe russe ma, sulla carta, verrebbe iscritta nei confini della Federazione. Per un Paese che ha fatto della riconquista territoriale il cardine della propria narrativa e della propria politica estera, significa accettare che parte del territorio riconosciuto dal diritto internazionale resti definitivamente sotto controllo dell’aggressore.
Il piano, insiste la Casa Bianca, non è solo una lista di rinunce. In cambio delle concessioni, l’Ucraina riceverebbe “garanzie di sicurezza esplicite” da parte degli Stati Uniti, con l’impegno a considerare un nuovo attacco russo come minaccia alla sicurezza della “comunità transatlantica”. Sulla carta, sarebbe una sorta di ombrello quasi-NATO; nella pratica, i dettagli che contano restano vaghi. I tempi, le modalità e i criteri di attivazione delle garanzie non sono chiariti, e in alcune clausole si prevede addirittura la loro decadenza automatica nel caso in cui l’Ucraina dovesse colpire città russe “senza causa”, concetto di per sé elastico e facilmente manipolabile. Inoltre, verrebbero fissati limiti all’uso di sistemi d’arma a lungo raggio, spostando parte del peso della deterrenza dai mezzi militari alla promessa politica.
Accanto all’architettura militare e di sicurezza, c’è un massiccio capitolo economico. Il piano prevede che circa duecento miliardi di dollari di beni russi congelati vengano utilizzati in parte per la ricostruzione ucraina, con progetti “guidati” dagli Stati Uniti, e in parte per fondi d’investimento congiunti USA-Russia in settori energetici, minerari e tecnologici. L’Europa, nelle intenzioni dei redattori del documento, dovrebbe aggiungere risorse analoghe, contribuendo a un grande piano di ricostruzione che si trasformerebbe, allo stesso tempo, in volano per la reintegrazione della Russia nell’economia globale, fino a un possibile ritorno di Mosca nel G8. Il conflitto, in questa visione, diventerebbe il trampolino per nuovi equilibri economici; ma agli occhi di molti ucraini e di diverse ONG, si tratterebbe di un sostanziale premio all’aggressione.
Poi c’è il capitolo che tocca direttamente la vita politica interna ucraina. Il piano chiede esplicitamente che in Ucraina si tengano elezioni entro cento giorni dalla firma dell’accordo, nonostante la legge marziale, milioni di sfollati, infrastrutture distrutte e una situazione di sicurezza estremamente fragile. Nello stesso pacchetto compare una clausola di amnistia generale per tutte le parti coinvolte nel conflitto, che renderebbe enormemente più complesso perseguire i crimini di guerra davanti alle corti internazionali e alle giurisdizioni nazionali. Per molte vittime ucraine, significherebbe vedersi chiedere di archiviare torture, deportazioni, bombardamenti su civili in nome di un “ritorno alla normalità”. Per organizzazioni come la Corte penale internazionale, equivarrebbe a mettere tra parentesi anni di lavoro e di indagini.
In questo quadro, il video di Volodymyr Zelensky assume il valore di un atto politico e, insieme, di un messaggio al Paese. Il presidente non alza i toni, non scivola in slogan patriottici. Parla di “uno dei momenti più difficili della nostra storia”, chiede agli ucraini di smetterla di divorarsi a vicenda, accenna alle inchieste per corruzione che hanno investito figure vicine al potere e ribadisce che “non tradirà” il Paese. Ma introduce, per la prima volta in questi termini, la scelta brutale che vede all’orizzonte: perdere la dignità o rischiare di perdere un partner chiave, cioè gli Stati Uniti. L’eco non è solo retorica. In Ucraina la parola “dignità” rimanda direttamente alla Rivoluzione di Maidan del 2013–2014, alla “Rivoluzione della dignità” che ha aperto il cammino verso l’Europa. Perdere la dignità, in questo contesto, significa rinnegare l’origine stessa del percorso europeo ucraino, riconoscere come irreversibile una mutilazione territoriale ottenuta con la forza.
Sul versante americano, la leva è calibrata con precisione. Il “bastone” è la minaccia, più o meno velata, di ridurre o ricalibrare il supporto militare, l’intelligence condivisa, la protezione politica in sede ONU se Kyiv non si allinea al calendario e alla filosofia del piano. La “carota” è la promessa di garanzie di sicurezza e di investimenti per la ricostruzione, accompagnata da una narrazione che suona così: senza accordo, l’Ucraina rischia comunque di perdere quei territori al tavolo militare, di affrontare un altro inverno di bombardamenti su centrali elettriche e reti energetiche, di vedere sgretolarsi la coesione interna. In un’intervista che ha agitato le cancellerie europee, Donald Trump ha ribadito che “giovedì è appropriato” come termine per la risposta, lasciando intravedere margini di estensione solo nel caso in cui “le cose vadano bene”. Un modo elegante per dire che il timer è reale e che ogni giorno di resistenza diplomatica ha un costo.
La scelta della data non è neutra. Il Thanksgiving, quarto giovedì di novembre, è una festa federale ma anche un momento simbolico in cui la politica americana ama fare bilanci e annunci. Fissare il 27 novembre come traguardo dà alla Casa Bianca la possibilità di presentare all’opinione pubblica un risultato – un accordo o, in mancanza, un cambio di linea – incorniciato da una narrazione di efficienza e pragmatismo: abbiamo proposto la pace, se non c’è è colpa di chi l’ha rifiutata. Per gli ucraini, invece, la stessa data si traduce in pressione pura: ogni giorno che passa avvicina il rischio di trovarsi con meno armi, meno radar, meno sostegno diplomatico proprio mentre l’inverno porta con sé blackout e nuovi esodi.
L’Europa si muove su un terreno altrettanto sdrucciolevole. Subito dopo il discorso di Zelensky, da Parigi, Berlino e Londra arrivano messaggi di solidarietà e rassicurazioni: il sostegno a Kyiv non verrà meno, qualsiasi piano di pace dovrà essere “accettabile per l’Ucraina” e coerente con la Carta delle Nazioni Unite. Leader come Emmanuel Macron, Keir Starmer e Friedrich Merz – così come il vicepresidente americano J.D. Vance, coinvolto nelle consultazioni – entrano in una girandola di telefonate e videocollegamenti con il presidente ucraino per coordinare le risposte. A Bruxelles, intanto, si cerca di ricucire lo strappo di metodo: gli europei hanno scoperto molti dettagli del piano a cose fatte, e la sensazione di essere stati messi davanti al fatto compiuto pesa, soprattutto nei Paesi che hanno investito di più nel sostegno a Kyiv.
Da Mosca, il Cremlino sceglie per ora il profilo basso. Il portavoce Dmitry Peskov parla di “contatti in corso”, ma ripete che la Russia non ha ancora ricevuto ufficialmente il testo nel dettaglio e che non esiste, al momento, un negoziato sostanziale con gli Stati Uniti. È una formula che permette a Vladimir Putin di tenersi le mani libere. I media russi, però, fanno filtrare che diversi capitoli del piano – il riconoscimento de facto dei territori occupati, la neutralità permanente dell’Ucraina, il tetto alle sue forze armate – coincidono con obiettivi dichiarati da Mosca fin dal 2022. È difficile immaginare che il Cremlino rinunci a sfruttare l’occasione di vedere sanciti in un documento internazionale risultati che sul campo di battaglia sono ancora parziali.
Dietro il linguaggio delle clausole, si nascondono almeno tre faglie profonde. La prima è territoriale: congelare la situazione di Crimea, Donetsk, Luhansk e delle porzioni contese di Zaporizhzhia e Kherson significa istituzionalizzare una perdita che il diritto internazionale continua a considerare illegittima. La seconda è quella della sicurezza. Le garanzie statunitensi sono presentate come robuste, ma restano dichiarazioni politiche, subordinate alle decisioni future di un’amministrazione che potrebbe cambiare linea o priorità; per l’Ucraina, rinunciare alla NATO in cambio di promesse unilaterali significa scommettere tutto sulla continuità della politica americana. La terza faglia riguarda la giustizia: un’amnistia generalizzata non solo limiterebbe la possibilità di perseguire crimini di guerra, ma invierebbe un segnale chiaro a tutti gli attori futuri, in Europa e altrove, sul costo reale delle violazioni più gravi del diritto umanitario.
Consapevole di questi rischi, Volodymyr Zelensky sta lavorando con i suoi alleati a un pacchetto alternativo che non si limiti a un “no” secco, ma metta sul tavolo un’altra logica. Nelle conversazioni con europei e americani, la squadra di Kyiv insiste su alcuni punti: cessate il fuoco verificabile e rinnovabile, con un meccanismo di monitoraggio internazionale e conseguenze automatiche in caso di violazioni; garanzie di sicurezza plurilaterali, firmate non solo dagli Stati Uniti ma da un gruppo di Paesi europei, con impegni chiari su difesa aerea, munizioni, addestramento, produzione industriale; uso dei beni russi congelati destinato in modo trasparente alla ricostruzione ucraina, senza scorciatoie verso la normalizzazione economica di Mosca; un percorso di giustizia transizionale che non cancelli la responsabilità penale, ma la gestisca con criteri compatibili con il diritto internazionale.
La tempistica è un’altra trappola. Le elezioni in cento giorni, così come sono pensate nella bozza statunitense, rischiano di trasformarsi in un referendum improvvisato su scelte storiche, in un Paese ancora sotto legge marziale, con milioni di profughi interni ed esterni e con partiti politici che non hanno avuto il tempo – né la sicurezza – per organizzare una campagna. Da mesi, in Ucraina, inchieste per corruzione e scandali interni minano la fiducia nelle istituzioni; in questo contesto, un voto affrettato potrebbe essere usato da chiunque, dentro e fuori il Paese, per delegittimare o contestare l’esito, soprattutto se l’accordo di pace fosse percepito da una parte significativa della popolazione come una resa travestita.
Sul campo, la guerra continua a dettare la sua grammatica. Mentre si discute di mappe e clausole, missili e bombe plananti russe colpiscono centrali elettriche, sottostazioni, depositi di carburante; droni di fabbricazione iraniana sorvolano città già al buio; i blackout tornano a essere routine. Ogni infrastruttura distrutta incrementa il costo umano e sociale di un altro inverno al fronte, e rende più persuasivo, agli occhi di una parte della popolazione e dell’opinione pubblica occidentale, il ragionamento del “meglio una cattiva pace che una guerra infinita”. È esattamente su questo equilibrio di stanchezza e paura che fa leva la pressione americana, mentre Mosca insiste sul messaggio opposto: se non accettate adesso, perderete ancora più territorio in futuro.
In questo scenario, la triade evocata da Zelensky – dignità, partner, inverno – diventa la chiave di lettura della crisi. La dignità è il limite politico e simbolico oltre il quale Kyiv dice di non poter andare, perché toccherebbe le fondamenta stesse della scelta europea del Paese. Il partner è il vincolo strutturale, il dato di realtà: senza Stati Uniti, l’Ucraina perde una parte decisiva della propria capacità di difesa. L’inverno è la variabile tattica, quella che può spostare, nel giro di poche settimane, l’umore di una società che pure ha dimostrato una resilienza straordinaria. Tenere insieme queste tre parole in un unico discorso è il tentativo del presidente di preparare il Paese a una stagione di decisioni estreme, senza rompere il fronte interno e senza bruciare i ponti con Washington.
Resta una domanda di fondo, alla quale, per ora, né le capitali occidentali né il Cremlino sembrano voler rispondere apertamente: che cosa significa, concretamente, una pace “reale e dignitosa” in un contesto in cui la forza ha già ridisegnato mappe e percezioni? Per Donald Trump, chiudere entro Thanksgiving è l’occasione per presentarsi agli elettori come il presidente che “ha fermato la guerra”, che ha riportato a casa i soldati americani e che ha costretto gli alleati a obbedire alla nuova linea di Washington. Per Volodymyr Zelensky, accettare un testo che consacra la perdita di territori e neutralizza il Paese significa rischiare di essere ricordato come il leader che ha dovuto firmare ciò che prometteva di evitare. Per l’Europa, il rischio è trovarsi con un’Ucraina ridotta a stato cuscinetto, permanentemente fragile, e con una Russia riammessa troppo in fretta nei circuiti economici internazionali, pronta a sfruttare ogni breccia.
Per questo, al di là del clamore sull’ultimatum e sul “giovedì fatidico”, la partita vera si gioca sulla traduzione della parola “dignità” in formule giuridiche, clausole operative, meccanismi di verifica. Se le prossime ore e i prossimi giorni serviranno a correggere il piano, a rafforzare le garanzie, a riequilibrare i sacrifici richiesti all’Ucraina con impegni altrettanto stringenti per la Russia, allora la finestra aperta oggi potrà trasformarsi in qualcosa che assomiglia a una pace sostenibile. Se invece prevarrà la logica del prendere o lasciare, se il piano resterà quello che è adesso, Kyiv potrebbe essere costretta a dire no, accettando il rischio di perdere un partner chiave pur di non perdere se stessa. In quel caso, il video del 21 novembre non sarà solo un discorso alla nazione, ma il documento di un bivio storico: il momento in cui un Paese ha preferito affrontare un altro inverno di guerra piuttosto che firmare la rinuncia alla propria dignità.
Edicola digitale
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.