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22 Novembre 2025 - 07:04
Congo, il massacro invisibile: culle rovesciate, villaggi bruciati e 89 civili uccisi in una settimana
All’ingresso della maternità, le culle vuote rovesciate raccontano più di qualunque comunicato. Sono la fotografia di un paese sospeso sull’orlo dell’abisso, dove la violenza non si limita a colpire la vita: la interrompe mentre sta per cominciare. A Byambwe, nel territorio di Lubero, la notte tra il 14 e il 15 novembre non è stata semplicemente una notte di guerra. È stata una frattura. Uomini armati sono entrati nel Centro di salute di riferimento gestito dalla Chiesa cattolica, hanno ucciso pazienti nelle corsie, hanno appiccato il fuoco a quattro padiglioni, hanno fatto irruzione nelle abitazioni circostanti saccheggiando farmaci, incendiando case, trascinando via persone che oggi risultano rapite o disperse. È uno dei tanti assalti che, secondo la MONUSCO, tra il 13 e il 19 novembre hanno provocato almeno 89 civili uccisi nell’Est della Repubblica Democratica del Congo. Un numero enorme, eppure incapace di esaurire lo strazio reale di quei giorni.
Le testimonianze concordano su una dinamica brutale. Le ADF — le Allied Democratic Forces, gruppo nato in Uganda negli anni Novanta, poi riparato nelle foreste congolesi e oggi affiliato allo Stato Islamico come ramo dell’ISCAP — hanno colpito prima il centro sanitario parrocchiale, poi le abitazioni attorno. Nel solo ospedale di Byambwe, diverse fonti concordano su almeno 17 vittime, tra cui 11 donne nella sezione maternità. Altre ricostruzioni, come quelle di Radio Okapi, aggiornano il bilancio a 29 persone uccise tra ospedale e villaggio, di cui 23 all’interno della struttura. Un portale locale indica 23 morti secondo la Croce Rossa, mentre una prima fonte di polizia, citata dall’AFP, parlava di 18. L’oscillazione non è casuale: nelle aree rurali del Nord Kivu i sopravvissuti si disperdono nella foresta, gli operatori arrivano a distanza di ore, a volte di giorni, e contare i morti diventa uno sforzo di ricomposizione collettiva.

A descrivere ciò che resta dell’ospedale sono anche voci della Chiesa: i missionari della diocesi di Butembo-Beni confermano che la struttura, gestita da religiose, è stata devastata e che gli assalitori hanno proseguito la razzia nel villaggio prima di dileguarsi nel buio del bush. Il centro sanitario oggi è “fuori servizio”. Bruciati i reparti, rubati i farmaci, distrutti gli strumenti. Per le donne incinte, per i neonati, per gli anziani, significa semplicemente non avere più un luogo dove essere curati.
La settimana di violenza descritta dalla MONUSCO non riguarda soltanto Byambwe. Le località colpite si trovano nelle chefferie di Baswagha e nel settore di Bapere: Mabiango, Tunarudi, Sambalysa, Thucha, Butsili. Ovunque i comitati locali parlano della stessa sequenza: uccisioni con armi bianche, case bruciate, saccheggi di medicinali, rapimenti. Decine di villaggi sono stati parzialmente svuotati, con la popolazione in fuga verso aree ritenute più sicure. Le ADF non sono nuove a simili incursioni: negli ultimi mesi hanno compiuto massacri che includono l’attacco a una veglia funebre a Ntoyo l’8 settembre 2025, costato oltre 60 vite secondo stime iniziali, e altri assalti contro luoghi di culto cristiani in Ituri tra luglio e agosto.
È un conflitto che si combatte in una zona teoricamente presidiata da due eserciti. Dal 30 novembre 2021, infatti, le FARDC — le forze armate congolesi — operano insieme all’UPDF, l’esercito ugandese, nell’ambito dell’operazione Shujaa. Campi distrutti, quadri catturati, ostaggi liberati: i comunicati ufficiali parlano di risultati, ma la realtà degli abitanti racconta altro. Le ADF continuano a muoversi attraverso corridoi boschivi larghi come autostrade naturali. I villaggi restano vulnerabili. Gli allarmi arrivano tardi. Gli attacchi avvengono spesso in piena “zona militare”. E l’assalto a Byambwe — a poche decine di chilometri da Butembo — dimostra quanto sia facile per un commando armato entrare, colpire e scomparire nel nulla.
Ogni attacco contro una struttura sanitaria è una doppia ferita: alle persone e al sistema che dovrebbe proteggerle. Quattro padiglioni bruciati e una farmacia saccheggiata non sono solo un danno materiale. Sono un colpo inferto alla capacità di una comunità di sopravvivere. Le organizzazioni mediche presenti nel Nord Kivu lo ripetono da mesi: gli ospedali rimasti operativi sono troppo pochi, sovraccarichi, spesso raggiungibili solo dopo ore di cammino. Garantire corridoi umanitari, proteggere ambulanze e personale sanitario, ripristinare i reparti di maternità sono oggi azioni urgenti, non raccomandazioni.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Il rappresentante speciale aggiunto del Segretario generale dell’ONU, Bruno Lemarquis, ha parlato della necessità di “indagini indipendenti e credibili” e ha ribadito che la protezione dei civili è una “priorità assoluta”. Dalla Chiesa locale arrivano parole di dolore e di denuncia: il vescovo di Butembo-Beni ha definito ciò che è accaduto un “massacro di persone indifese”. Il premio Nobel Denis Mukwege, da anni voce autorevole sui crimini commessi in Congo, ha richiamato la comunità internazionale al dovere di prevenire, proteggere, punire. La MONUSCO ha ricordato che colpire un ospedale può costituire crimine di guerra, richiamando alla responsabilità non solo gli esecutori, ma anche chi li arma, li finanzia, li addestra.
Il contesto politico complica tutto. Mentre nel Nord Kivu le ADF colpiscono villaggi e presidi sanitari, un altro fronte — quello con l’M23, sostenuto dal Ruanda secondo numerosi rapporti — continua a ridisegnare equilibri e territori. Gli Stati Uniti, il Qatar, i paesi della regione tentano mediazioni, ma il mosaico di milizie, interessi minerari e confini porosi rende fragile ogni negoziato. Il risultato è che la popolazione resta schiacciata: 8 milioni di sfollati interni, 28 milioni di persone in insicurezza alimentare acuta, ospedali senza medicine, villaggi senza protezione.
Le domande aperte sono molte. Quanti sono davvero i dispersi di quella settimana di novembre? Perché un attacco così violento ha potuto avvenire in un’area sotto responsabilità delle forze congiunte FARDC–UPDF? Quali misure immediate verranno adottate per ripristinare la funzionalità dei centri di salute, almeno con strutture temporanee, medicinali e supporto psicologico? E soprattutto: come garantire che la violenza contro i civili non resti impunita?
Quando le cifre oscillano, è necessario essere onesti. I numeri parziali parlano di 17, poi 18, poi 23, infine 29 morti. La MONUSCO indica 89 vittime nell’intera settimana di attacchi nel territorio di Lubero. È fondamentale distinguere tra bilanci iniziali, aggiornamenti e conteggi che includono non solo l’ospedale, ma anche i quartieri circostanti. La prudenza non è un esercizio accademico: è l’unico modo per rendere giustizia alle vittime ed evitare di alimentare confusione.
Ma al di là dei numeri, resta la realtà. Restano le ostetriche che non torneranno a casa, i bambini rimasti senza genitori, i pazienti che pensavano che una corsia fosse un luogo sicuro. Resta un ospedale che non ha più pareti e una comunità con meno letti, meno farmaci, meno mani per curare. Resta un paese che, ancora una volta, chiede una cosa semplice e difficilissima: che il fatto di essere civili non sia una condanna.
Raccontare cosa sta succedendo significa fare un lavoro doppio: riportare dati verificati e, allo stesso tempo, non perdere il senso umano di ciò che accade. Significa ricostruire le dinamiche, i nomi, le date, le responsabilità, ma anche ricordare che dietro ogni cifra c’è una vita interrotta. Solo così l’informazione è utile. Solo così può servire a capire, a chiedere protezione, a pretendere giustizia.
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