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Lo Stiletto di Clio
21 Novembre 2025 - 09:23
Militari del Laboratorio torpedini di Settimo.
«Lanciatorpedini. Ho lasciato il mio plotone destinato a formare il 64° battaglione [...]. Si è costituita una seconda sezione di lancia Bettica e me ne hanno offerto il comando. Esercitazioni al poligono di Ronchi». A scrivere da Doberdò, sull’altopiano carsico, il 1° febbraio 1917, è il caporalmaggiore Benito Mussolini, bersagliere dell’11° reggimento, nel diario di guerra che il quotidiano «Il Popolo d’Italia» – di cui era fondatore e direttore – pubblicava a puntate.
Le «lancia Bettica» a cui il futuro Duce accenna sono le sezioni di lanciatorpedini che erano operative durante il primo conflitto mondiale presso ogni battaglione di fanteria, bersaglieri e alpini dell’esercito italiano. Prendevano il nome dall’allora capitano, poi maggiore, Alberto Bettica, al quale si doveva l’insolito ma efficacissimo sistema per distruggere i reticolati di protezione delle trincee nemiche, prima che i soldati si slanciassero all’attacco, e per martellare le stesse trincee. Di lì a qualche mese, subito dopo la rotta dell’esercito italiano a Caporetto, Bettica impianterà un Laboratorio torpedini a Settimo Torinese.

Lanciatorpedini Bettica con torpedine innestata, pronta per il lancio

Lanciatorpedini e torpedine in un disegno tratto da un manuale del 1917
Arma tutt’altro che sofisticata, il lanciatorpedini era costituito da un robusto zoccolo in legno. Le sue estremità erano rispettivamente chiamate «testa» e «coda». Irrobustita da una lamina di ferro, la prima aveva la forma di un semicilindro su cui ruotava il cosiddetto «maschio», regolabile sino alla massima inclinazione di quarantacinque gradi rispetto al terreno: una grossa vite a galletto serviva per bloccarlo nel punto prescelto. Allo scopo di stabilizzare il dispositivo, la testa disponeva di un vomero, da conficcarsi nel terreno.
La bomba, cioè la torpedine, non era che un semplice tubo di acciaio che un diaframma, trattenuto da un paio di strozzature, divideva internamente in due settori di lunghezza diseguale. Definito «anima», il più corto racchiudeva la carica di lancio e s’innestava sul maschio: un foro serviva per il passaggio della miccia di accensione, mentre un secondo foro, diametralmente opposto al primo, era attraversato dalla miccia della carica di scoppio, a sua volta contenuta nella parte più lunga della torpedine (il «corpo»). Protetta da una fettuccia arrotolata, la seconda miccia usciva dall’anima ed entrava nel corpo, correndo all’esterno del tubo. Innescando la prima miccia, ossia quella di accensione, si faceva esplodere la carica di lancio, la quale scaraventava la torpedine verso le linee nemiche, attivando nel contempo la miccia d’innesco. Dopo dieci secondi dal tiro, deflagrava la carica di scoppio.
Dopo lo sfondamento delle linee italiane sull’alto Isonzo, a Caporetto, il 24 ottobre 1917, e l’avanzata di austro-ungarici e tedeschi sino al Piave, il maggiore Alberto Bettica decise di trasferire la propria attività in un luogo sicuro, lontano dal fronte, in prossimità di un’importante linea ferroviaria. Per quale motivo egli scelse Settimo non è noto. Il teologo Domenico Caccia, nato nel 1906, autore di un volume sulla storia locale, scrisse che Bettica – da lui chiamato erroneamente Luigi – era «di famiglia oriunda settimese». È possibile, ma la notizia necessita di riscontri.
In Settimo, il Laboratorio torpedini occupò quattro fornaci inattive col circostante terreno incolto, la cascina Froccione, parte della cascina Nuova e la casa di un tal Michele Cacciotto. Furono inoltre requisiti i locali per uffici e l’officina di un grande fabbricato industriale all’angolo fra le attuali vie Italia e Giuseppe Garibaldi, dove sono attualmente in corso i lavori di costruzione dei cosiddetti grattacieli. Più tardi, in tempi diversi, il Laboratorio occupò altri stabili, fra cui il Mulino vecchio, la cascina Spada, un magazzino del Mulino nuovo e l’alloggio della maestra nella scuola della borgata Fornacino, fra Settimo e Leinì.
Il lavoro di caricamento delle torpedini ebbe inizio nelle ultime settimane del 1917. Allo stato attuale delle ricerche non è chiaro quanti soldati furono trasferiti a Settimo. Da una richiesta inviata nel marzo 1918 dal comando della Divisione militare di Torino all’Ufficio vigilanza truppe della Milizia territoriale, sembrerebbe 275. Sta di fatto che non pochi operai civili vennero assunti sin dal 28 dicembre 1917: per un impegno giornaliero di dieci ore, la direzione corrispondeva una paga oraria variabile fra i quaranta e i sessanta centesimi. «Gli operai civili – precisò il maggiore Bettica – saranno considerati come militarizzati e sottoposti alla sorveglianza di appositi graduati. Per essi saranno osservate le norme stabilite dal Comando supremo per gli operai civili in zona di guerra». Carrettieri sia civili sia militarizzati furono addetti al trasporto dei materiali.
Nel Laboratorio fu infine istituito un settore femminile per il confezionamento di cartocci, zainetti e micce. Il 14 dicembre 1917 lo stesso Bettica chiese agli amministratori comunali i nominativi di «alcune donne […] bisognose», in possesso dei «dovuti requisiti morali e di cultura», a cui affidare la direzione del settore. Le operaie, «che saranno pure scelte fra le persone bisognose del paese e fra le profughe – spiegò Bettica – percepiranno una paga giornaliera che, a seconda del genere del lavoro, potrà variare fra lire tre e lire quattro». L’Archivio storico del Comune conserva alcune delle lettere che il sindaco di Settimo inviò ad Alberto Bettica per segnalare donne meritevoli di assunzione (generalmente vedove di guerra o mogli di militari al fronte).
Dopo la fine del conflitto, il Laboratorio torpedini continuò ancora per qualche anno la propria attività in Settimo, occupandosi soprattutto di recupero degli ordigni bellici.
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