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Trump scatena la CIA, Maduro prepara i missili: il Caribe è pronto a esplodere

L’America autorizza operazioni coperte, Caracas risponde militarizzando porti e aeroporti: la crisi tra Stati Uniti e Venezuela è entrata nella fase più vicina alla guerra dagli anni di Allende

Trump scatena la CIA, Maduro prepara i missili: il Caribe è pronto a esplodere

Il vento che spira dalla costa di La Guaira porta odore di salsedine e di acciaio. Sopra il mare, in diretta tv, una mappa plastificata occupa lo schermo: quartiere dopo quartiere, “calle por calle”, il “piano integrale di difesa” dell’asse Caracas–La Guaira viene declinato come se fosse il teatro di una guerra già iniziata. È Nicolás Maduro in persona a scandire le parole che accendono l’allarme in tutta la regione: i fucili e i missili sono pronti a difendere il Paese, anche nel Mar dei Caraibi. Nelle stesse ore, a Washington, Donald Trump rivendica di aver autorizzato la CIA a operare in Venezuela, conferma che “le tradizionali operazioni antidroga non funzionano più” e lascia intendere che l’opzione di azioni “a terra” non sia solo retorica. Due annunci distanti migliaia di chilometri ma perfettamente allineati: la crisi entra nel suo momento più pericoloso, mentre la narrativa ufficiale resta quella della “guerra alla droga”.

Il punto fermo, confermato pubblicamente il 15 ottobre 2025, è che Trump ha effettivamente autorizzato la CIA a condurre operazioni coperte in Venezuela. Lo ha ammesso lui stesso rispondendo ai giornalisti, dopo indiscrezioni del New York Times riprese da diverse testate statunitensi, spiegando che il via libera è parte di una campagna contro i cartelli della droga che operano nel Caribe e accusando Caracas di aver “svuotato le carceri” e spedito detenuti e pazienti psichiatrici verso la frontiera statunitense. La conferma è arrivata dopo settimane di attacchi letali contro imbarcazioni sospettate di traffico di stupefacenti: almeno cinque barche distrutte dall’inizio di settembre, ventisette morti, e, secondo l’amministrazione, la maggior parte dei mezzi partita da coste venezuelane. Nessuna prova pubblica, però, è stata finora mostrata sui carichi di droga realmente presenti a bordo, né sul profilo dei morti: narcotrafficanti armati, pescatori, migranti o un mix di tutte queste categorie.

Quando gli chiedono se esista un mandato per “rovesciare Maduro”, Trump evita di rispondere e ripete i due pilastri della sua giustificazione: da un lato l’accusa al governo chavista di usare migranti, ex detenuti e persone ritenute “pericolose” come arma di pressione verso gli Stati Uniti, dall’altro la minaccia del narcotraffico che “arriva anche dal Venezuela”. È una narrativa martellata da anni, ma che non coincide con molte analisi ufficiali sul ruolo del Venezuela nelle rotte principali del fentanyl e della cocaina verso il mercato statunitense. Proprio per questo, in Congresso si è formato un fronte bipartisan che chiede trasparenza, vuole vedere il testo del “finding” presidenziale che autorizza le operazioni e teme che la campagna stia scivolando verso un conflitto di fatto, non dichiarato, senza adeguata supervisione parlamentare.

Sul piano operativo, ricostruzioni di stampa e analisi di think tank descrivono un rafforzamento degli asset della CIA tra Caraibi e America Centrale: piattaforme di intelligence, droni, capacità di sorveglianza elettronica sulle rotte marittime e sulle aree considerate sensibili per la produzione e lo stoccaggio di stupefacenti. Ma la natura esatta del mandato resta classificata: nessun dettaglio pubblico su obiettivi, regole d’ingaggio e catena di comando. È lo stesso schema che, mezzo secolo fa, ha accompagnato gli interventi coperti in Cile contro Salvador Allende, quando la CIA e la Casa Bianca di Richard Nixon usarono la leva delle “operazioni politiche” e del sostegno occulto a opposizioni e media per piegare un governo considerato ostile. Oggi, in Venezuela, il copione è aggiornato alla versione 2.0: meno valigette di contanti, più droni e operazioni cinetiche in mare.

La dimensione clandestina corre in parallelo a una pista che, tra settembre e ottobre 2025, aveva riaperto spiragli di negoziato. Secondo fonti citate da Associated Press e da media statunitensi, ambienti governativi venezuelani avrebbero fatto filtrare un’ipotesi destinata a far discutere: Maduro pronto a valutare un percorso di uscita graduale dal potere, con dimissioni entro circa tre anni, trasferimento dei poteri alla vicepresidente Delcy Rodríguez fino alla fine del mandato e impegno a non ricandidarsi. Washington avrebbe respinto la proposta, continuando a considerare illegittimo il mandato di Maduro e scegliendo di alzare la pressione giudiziaria e finanziaria invece di coltivare quella ipotesi di transizione controllata. In questo quadro si inserisce anche la decisione di raddoppiare la taglia su Maduro: da 25 a 50 milioni di dollari, con l’accusa di essere a capo di un sistema di narcotraffico che coinvolge il Cartel de los Soles e reti criminali come Tren de Aragua e la galassia dei cartelli messicani. Caracas ha bollato queste indiscrezioni sui negoziati come “fake news” e la taglia come “propaganda politica”.

Nel mosaico rientra la figura dell’inviato speciale Richard Grenell, ex ambasciatore e uomo di fiducia di Trump su diversi dossier sensibili. Nei primi mesi del 2025 è lui a rivendicare di aver parlato direttamente con Maduro “per ordine del presidente Trump”, fungendo da canale informale tra Washington e il palazzo di Miraflores. Ma, mano a mano che prende forma la linea dura – più navi, più CIA, più taglie – lo spazio di Grenell si restringe. Ricostruzioni giornalistiche parlano di una sua progressiva messa da parte sul dossier Venezuela, fino alla sospensione del suo ruolo, coerentemente con la decisione di interrompere l’offensiva diplomatica proprio mentre la campagna militare nel Caribe accelera. È l’ennesima dimostrazione di una politica delle due mani: una che stringe il pugno e una che finge di tendersi al dialogo, lasciando però che siano i militari e le agenzie a dettare il ritmo.

La risposta di Maduro è una teatralizzazione calcolata della deterrenza. Tra il 19 e il 20 novembre 2025, il leader venezuelano presenta un piano di difesa territoriale per l’area Caracas–La Guaira, mostrando in diretta tv un perimetro operativo che include porto, aeroporto internazionale di Maiquetía e zone urbane densamente popolate, cioè la principale porta d’accesso alla capitale. Parla di “armamento pesante e missili” e di un “parque de armas” destinato alle Milicias, segnalando la volontà di rendere poroso il confine tra difesa militare e strutture civili. Il messaggio è esplicito: il Paese, e in particolare l’asse strategico che collega Caracas al mare, si prepara a una guerra prolungata, non solo contro flotte straniere ma anche contro infiltrazioni e operazioni speciali interne. Non è la prima volta che Madurobatte sul tasto missilistico: a fine ottobre ha rivendicato la disponibilità di oltre 5.000 sistemi Igla-S come riserva di difesa antiaerea distribuita sul territorio, mentre già a settembre, in parallelo all’incremento della presenza navale statunitense, aveva parlato di “massima allerta” e della necessità di presidiare coste e frontiere con Colombia e Brasile con un mix di FANB e milizie popolari.

Nel frattempo il quadro sul mare cambia radicalmente. Dalla fine dell’estate 2025 il Mar dei Caraibi è diventato il palcoscenico di una delle più massicce concentrazioni di potenza navale statunitense dalla fine della Guerra fredda: cacciatorpediniere, un incrociatore, navi d’assalto anfibie, fino all’arrivo del gruppo d’attacco della portaerei USS Gerald R. Ford, ufficialmente nell’ambito di una campagna di “enhanced counter-narcotics operations”. Secondo fonti del Pentagono citate da media americani, il dispositivo complessivo conta otto unità di superficie principali e oltre 4.000 tra marinai e Marines, una massa critica che eccede di molto le esigenze di mera interdizione marittima. Trumpha definito i cartelli “combattenti illegali” e ha parlato di “narco–terroristi” da colpire con ogni mezzo, inserendo questa campagna nella scia della guerra al terrorismo e cercando così un inquadramento giuridico che permetta l’uso della forza anche oltre le acque internazionali.

Il presidente ha aggiunto che “il mare è sotto controllo” e che ora “si guarda alla terraferma”, formula che in un contesto simile suona come un avvertimento più che come un’analisi. Per ora né la Casa Bianca né il Pentagono hanno diffuso elementi dettagliati sugli obiettivi già colpiti, sulle regole d’ingaggio e sul coordinamento con forze locali, alimentando dubbi su proporzionalità e trasparenza. Gli stessi think tank che sostengono da anni la linea dura verso Maduro riconoscono che il livello di escalation raggiunto rende molto più probabile un incidente: un peschereccio scambiato per barca dei narcos, un drone abbattuto, un contatto ravvicinato tra unità navali, un colpo di troppo lungo la frontiera colombiana.

La politica delle due mani è evidente anche sul piano retorico. Da un lato l’amministrazione Trump alterna minacce, sanzioni e ricompense – la taglia da 50 milioni di dollari su Maduro parla da sola – dall’altro riconosce che il presidente venezuelano “è disposto a parlare” e che una qualche forma di colloquio non è esclusa, pur continuando a negare qualsiasi legittimità al governo chavista. È una strategia che punta esplicitamente a spaccare il fronte interno venezuelano e a testare la fedeltà di generali e alti funzionari, facendo circolare l’idea che una via di uscita “onorevole” sia possibile solo per chi si smarca in tempo. Ma la stessa pubblica conferma delle operazioni CIA – un’anomalia rispetto alla tradizionale prudenza americana su questo tipo di attività – funge da messaggio coercitivo che irrigidisce la controparte, specie quando il leader al centro della crisi ha costruito il proprio consenso sulla narrativa della resistenza anti–imperialista e del complotto permanente ordito da Washington.

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Sul fronte interno, Maduro rilancia la “máxima alerta” e fa leva sulla Milicia, il corpo di civili con addestramento militare, presentato come prolungamento armato del “pueblo organizado”. Ordina esercitazioni lungo la costa centrale e ai confini, mostra mappe operative in tv, invita la popolazione a vedere nella difesa del Paese non solo un dovere delle FANB ma una sorta di responsabilità collettiva. La presentazione del “piano Caracas–La Guaira” in diretta su VTV ha una chiara funzione pedagogica e propagandistica: far capire che “le armi sono pronte” e che i quartieri popolari possono diventare trincee. Il risultato è una sovrapposizione pericolosa tra obiettivi civili e infrastrutture militari, che in caso di scontro reale aprirebbe interrogativi enormi sul rispetto del diritto internazionale umanitario.

Sul versante giuridico, l’argomento antidroga è la chiave retorica scelta da Trump per vendere all’opinione pubblica e al Congresso una campagna che, nei fatti, ha già oltrepassato la soglia della tradizionale interdizione marittima. Ma diversi esperti e osservatori internazionali ricordano che il Venezuela non è considerato il principale punto d’origine del fentanyl che devasta gli Stati Uniti e che una parte consistente della cocaina che attraversa i Caraibi non è diretta al mercato statunitense. Se così è, la costruzione del “nemico non statuale” rischia di trasformarsi in un ombrello legale troppo ampio, in grado di coprire anche operazioni con effetti diretti sulla sovranità di uno Stato, fino a sfiorare il cambio di regime. È questo il motivo per cui parlamentari di entrambi i partiti e giuristi chiedono supervisione del Congresso, pubblicazione di elementi probatori e limiti chiari alle operazioni coperte, evocando il fantasma delle stagioni più oscure delle guerre segrete in America Latina.

Caracas, dal canto suo, invoca la Carta ONU, il principio di non ingerenza, il diritto alla difesa, e trasforma la crisi attuale in un test identitario per l’intero continente. Maduro richiama la lunga storia di colpi di Stato, invasioni e operazioni clandestine sostenute o orchestrate da Washington nella regione, dal Guatemala agli anni Settanta cileni, cercando di presentare il Venezuela come il nuovo banco di prova di una sfida più ampia tra sovranità e interventismo. Nel frattempo, però, le implicazioni concrete sono tutt’altro che teoriche: un’operazione militare sul territorio venezuelano, anche limitata, avrebbe effetti immediati sui flussi migratori, sui mercati energetici, sugli equilibri con attori esterni come Russia, Cina e Iran – partner chiave di Caracas sul piano militare ed economico – e metterebbe sotto pressione governi come quelli di Colombia, Brasile, Messico e dei Paesi caraibici, chiamati a decidere se schierarsi, cooperare o smarcarsi dalla strategia statunitense.

Sul mare, intanto, le unità navali continuano a pattugliare, i droni a sorvolare rotte e coste, i comunicati a parlare di “successi contro i cartelli”, mentre poco o nulla si sa dei nomi e dei corpi che restano in fondo al mare. Alcune inchieste giornalistiche sostengono che Pentagono e CIA abbiano ormai superato, nei fatti, il modello delle tradizionali operazioni di interdiczione marittima per abbracciare un approccio più apertamente cinetico, senza che siano pubblici i criteri di selezione dei bersagli e il livello di coinvolgimento delle forze locali. Per i partner regionali, dal Caricom alla Colombia, il dilemma è strategico: seguire Washington e legittimare una possibile regionalizzazione del conflitto, oppure prendere le distanze e denunciare l’uso della “guerra alla droga” come copertura per un cambio di regime. In mezzo, tra missili annunciati in tv e operazioni coperte rivendicate davanti alle telecamere, resta uno spazio sempre più stretto in cui un errore di calcolo, una nave sbagliata, una scintilla sul Caribe potrebbero trasformare una campagna “contro i narcos” in una guerra che nessuno, almeno in pubblico, dice di volere.

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