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“Pace” a porte chiuse: cosa c’è davvero nel piano in 28 punti su Ucraina e Russia

Un negoziato parallelo, scritto a Washington con input russi, che chiederebbe a Kyiv tagli profondi, nuove linee di confine e concessioni di lungo periodo. E che l’Europa dice di non aver visto

“Pace” a porte chiuse: cosa c’è davvero nel piano in 28 punti su Ucraina e Russia

“Pace” a porte chiuse: cosa c’è davvero nel piano in 28 punti su Ucraina e Russia

Un tavolo apparecchiato in una suite di Miami tra il 24 e il 26 ottobre: da una parte l’inviato speciale della Casa Bianca, dall’altra il fiduciario del Cremlino. Sul tavolo, non mappe d’artista ma carte operative, articolate in 28 punti. Non è la sceneggiatura di una serie tv, ma – secondo le ricostruzioni di Axios e confermate dal Financial Times – l’ossatura di un piano per chiudere la guerra in Ucraina. Un piano che prevede concessioni territoriali a Mosca, tagli drastici alle capacità militari di Kyiv, un freno alle armi a lungo raggio e una riduzione dell’assistenza militare americana. E che ha fatto scattare l’allarme in Europa, rimasta ai margini mentre Washington e Mosca tracciano la cornice. A Kyiv il documento circola solo come bozza orale, ma basta questo per scatenare il gelo: se applicato così com’è stato descritto, chiederebbe all’Ucraina di arretrare non solo geograficamente, ma anche strategicamente. Proprio per questo, nelle capitali europee già si parla apertamente di “capitolazione”.

Secondo le ricostruzioni più solide rese pubbliche il 19 e 20 novembre 2025, il progetto americano – elaborato “in consultazione” con Mosca – è strutturato in quattro capitoli: “pace in Ucraina”, “garanzie di sicurezza”, “sicurezza in Europa” e “future relazioni” tra Stati Uniti, Russia e Ucraina. Una struttura che riecheggia quella usata dall’amministrazione statunitense per l’accordo di cessate il fuoco a Gaza, applicata questa volta al cuore dell’Europa orientale. A guidare la redazione sarebbero stati l’inviato presidenziale Steve Witkoff per gli Stati Uniti e il negoziatore Kirill Dmitriev – capo del Russian Direct Investment Fund – per la Russia. I due avrebbero trascorso tre giorni chiusi nella suite di Miami per “blindare” i punti chiave, prima di un contatto operativo con Kyiv, tramite Rustem Umerov, consigliere per la sicurezza del presidente Volodymyr Zelensky. Fonti ucraine precisano che si è trattato di un briefing orale, senza consegna di un testo scritto, e che le obiezioni di Kyiv sono numerose e sostanziali.

Il capitolo più esplosivo riguarda i confini. Il piano, stando ad Axios, chiederebbe all’Ucraina di concedere alla Russia il controllo completo delle regioni di Luhansk e Donetsk – l’intero Donbas – anche dove Kyiv mantiene ancora presenze territoriali. Le aree sgomberate diverrebbero una “zona demilitarizzata”, senza truppe né russe né ucraine. Nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia la linea verrebbe “congelata” lungo i confini attuali, con possibili micro-aggiustamenti. Per molti osservatori europei, significherebbe “premiare l’occupazione” e dare un sigillo politico a linee di contatto ancora mobili. Su Crimea, circola l’ipotesi di un riconoscimento de facto dello status attuale, senza forzare Kyiv a una dichiarazione formale: una formula ambigua, che fotografa il massimo oggetto del contendere in un territorio che la Russia considera “non negoziabile” e l’Ucraina “temporaneamente occupato”.

Il secondo pilastro è quello che ha creato maggiore allarme nella comunità militare: la riduzione sostanziale delle forze armate ucraine, fissate a circa 400 mila effettivi, e la rinuncia a intere categorie di armi a lungo raggio, quelle che permettono di colpire in profondità le retrovie russe. Non solo: il piano prevedrebbe una forte riduzione dell’assistenza militare americana, rallentando il flusso di sistemi avanzati e munizionamenti. “Un’Ucraina senza long-range e con un esercito dimezzato rischia di diventare vulnerabile al prossimo round”, ripetono gli analisti citati da Financial Times e Guardian. In altre parole: più che una pace, una fragile tregua con un debito strategico incorporato.

Le clausole più politiche arrivano dopo. Il piano includerebbe infatti un divieto di schierare truppe straniere in Ucraina. Una norma che colpisce al cuore le discussioni europee del 2025 sulla possibilità di una “coalizione dei volenterosi” – guidata da Francia e Regno Unito – per missioni di peacekeeping. Se questa opzione viene esclusa in partenza, l’ombrello di protezione sul terreno evapora e resta solo la deterrenza a distanza, molto più lenta da attivare. Poi le richieste più sensibili: riconoscere il russo come lingua ufficiale e conferire un ruolo formale alla Chiesa ortodossa russa. Temi che a Kyiv vengono letti come tentativi di “normalizzazione culturale” del peso politico del Cremlino in Ucraina. Alcune fonti li citano come possibilità discusse, non come punti già fissati: ma il solo fatto che compaiano in un documento di questo tipo è bastato a innescare reazioni durissime.

Il pacchetto americano, in cambio, parlerebbe di garanzie di sicurezza per Ucraina ed Europa. Negli ultimi mesi funzionari di Washington hanno alluso a un ombrello “tipo Articolo 5” ma fuori dalla NATO: un meccanismo che renderebbe più credibile la deterrenza senza promettere l’ingresso formale dell’Ucraina nell’Alleanza. Ma i dettagli non ci sono: chi decide quando scatta la protezione? Chi mette uomini e mezzi? Quale base giuridica? Senza risposte, questa garanzia rischia di restare un concetto politico, non uno strumento operativo.

Quanto al metodo, il tavolo è stato ristretto. Gli USA siedono con Witkoff. La Russia con Dmitriev. L’Ucraina partecipa solo per essere informata, non per co-scrivere. L’Europa, invece, resta fuori dalla porta. Da Parigi a Varsavia, da Bruxelles a Londra, lo sconcerto è unanime: in due anni e mezzo di guerra, i Paesi europei sono diventati i principali finanziatori e fornitori di Kyiv. Eppure, sulle 28 voci di un accordo che ridisegnerebbe la sicurezza del continente, non avrebbero avuto voce. Per questo, più capitali parlano apertamente di “capitolazione”.

Le reazioni ufficiali confermano l’irritazione. A Kyiv fonti vicine alla presidenza definiscono la proposta “assurda” e “inaccettabile”: la linea resta quella del rifiuto di concessioni territoriali e della disponibilità a un negoziato solo a partire dal ritiro russo. L’Europa insiste: “nessuna pace senza Ucraina ed Europa al tavolo”. Il Cremlino, dal canto suo, minimizza: “niente di nuovo”. Ma la posizione di Mosca sul merito non cambia: niente NATO per Kyiv, riconoscimento del controllo russo su Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Se il piano si avvicina a questa traiettoria, per Putin è un passo avanti. Se se ne allontana, resta comunque utile per guadagnare tempo politico.

Il nodo geografico resta il punto strutturale: a oggi la Russia controlla circa il 19% del territorio ucraino. Nel Donbas, secondo stime condivise da Axios e Al Jazeera, l’Ucraina mantiene ancora circa il 14,5% delle aree contese. Congelare le linee significherebbe dunque consegnare a Mosca territori che non ha conquistato sul campo, ma che otterrebbe per via negoziale. È questo il cuore della critica: il piano rischia di codificare una sconfitta che non c’è stata sul terreno, nella speranza che le garanzie americane la compensino.

E tuttavia, il dossier presenta diversi buchi neri. Non esiste un testo ufficiale pubblico dei 28 punti. Le ricostruzioni si basano su briefing informali e fonti anonime. Mancano i meccanismi di enforcement: chi controlla chi? Sono previste sanzioni automatiche (“snapback”) se una parte viola il cessate il fuoco? E soprattutto: quale ruolo avrebbe l’Europa, unico attore con interesse diretto e continuità istituzionale per investire sulla sicurezza ucraina nel lungo periodo?

Gli scenari possibili sono tre. Una rinegoziazione profonda, con un testo riscritto dopo le reazioni negative di Kyiv e dei partner europei. Un congelamento senza accordo, con la guerra che prosegue a intensità variabile. Oppure un accordo minimalista: un cessate il fuoco parziale, rinviando i dossier più tossici a futuri tavoli, rischiando un equilibrio instabile.

In questa fase è cruciale un principio: nessuno dei punti finora discussi è stato formalmente sottoscritto. Le condizioni ventilate – cessione integrale del Donbas, linee congelate nel sud, taglio dell’esercito a 400 mila, stop ai missili a lungo raggio, riduzione dell’assistenza USA – rappresentano il “massimo” negoziale di un documento in evoluzione, non una fotografia definitiva. Ma se la diplomazia statunitense vuole davvero trasformare le 28 voci in una pace che tenga, dovrà passare da Kyiv e da Bruxelles. E dimostrare che la sicurezza ucraina non è un allegato, ma la prima delle clausole. Perché ogni riga scritta oggi sarà testata domani non nei comunicati, ma sulle frontiere.

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