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21 Novembre 2025 - 09:00
Nigeria, quattro ergastoli per Nnamdi Kanu: lo Stato spezza il sogno del Biafra
Una Bibbia aperta sul banco del tribunale, una citazione sul dovere di “temperare la giustizia con la misericordia”, e poi la formula secca: colpevole su tutti e sette i capi d’imputazione. Nella sala del tribunale federale di Abuja, il leader separatista Nnamdi Kanu ha ascoltato il verdetto immerso in un clima teso, fra mormorii, richiami all’ordine e un allontanamento temporaneo per comportamento giudicato “indisciplinato”. La decisione, attesa da anni e già ampiamente divisiva, pesa ben oltre il destino di un singolo imputato: riguarda il fragile equilibrio tra sicurezza nazionale, diritti fondamentali e rappresentanza politica nel Paese più popoloso dell’Africa. Il giudice James Omotosho ha rigettato la richiesta di condanna a morte avanzata dai pubblici ministeri e ha inflitto a Kanu quattro ergastoli, oltre a pene minori, da scontare in maniera concorrente. In quella stanza la giustizia nigeriana ha scelto di rinunciare alla forca e abbracciare il carcere a vita, una decisione che risuona anche come un messaggio politico.
La sentenza riconosce Kanu colpevole di sette capi legati al terrorismo: quattro punibili in astratto con la pena capitale, uno con vent’anni di reclusione, un altro con cinque anni e gli altri due con pene minori. Il tribunale ha inoltre stabilito che l’imputato non potrà accedere a dispositivi digitali durante la detenzione e sarà trasferito in un istituto considerato più idoneo alla sua pericolosità, diverso dal Kuje Correctional Centre, da cui in passato sono evasi detenuti pericolosi. L’accusa aveva chiesto il massimo: la condanna a morte per cinque capi d’imputazione, sostenendo che la Terrorism Prevention (Amendment) Act del 2013 la consentisse per la gravità dei fatti contestati, tra cui istigazione ad attacchi contro agenti di sicurezza, minacce e la diffusione di ordini coercitivi come i “sit-at-home” che per anni hanno paralizzato la regione sud-orientale del Paese.
Il giudice Omotosho, richiamando esplicitamente l’orientamento internazionale sempre più contrario all’uso della pena capitale, ha scelto l’ergastolo. Quel riferimento alla disapprovazione globale dell’esecuzione capitale non è stato un inciso retorico: è diventato il baricentro della motivazione. Dopo otto anni di udienze, ricusazioni e rinvii, in un processo segnato da una difesa instabile — con Kanu che negli ultimi mesi ha di fatto rifiutato di riconoscere l’autorità del tribunale, mandando via il proprio collegio legale e rinunciando al controesame — il giudice ha ricordato che molte prove dell’accusa sono rimaste “incontestate”. Ciononostante, ha escluso l’impiccagione e applicato la sanzione più severa immediatamente inferiore.
Il cuore dell’impianto accusatorio ruota intorno all’uso della comunicazione come strumento di violenza politica. Attraverso Radio Biafra, i social e messaggi vocali diffusi alla diaspora, secondo i giudici Kanu avrebbe istigato e preparato atti terroristici. Le direttive dei “sit-at-home”, ordini di rimanere in casa ogni lunedì nel Sud-Est, sono state qualificate come atti di terrorismo perché imposte tramite minacce, aggressioni e punizioni esemplari. Think tank indipendenti hanno stimato in almeno 700 i morti collegati all’imposizione violenta di quelle direttive e in oltre 7,6 trilioni di naira — più di 5 miliardi di dollari — le perdite economiche cumulative registrate in anni di paralisi intermittente. In molte città commerci, trasporti e servizi essenziali si sono fermati per lunghi periodi, generando un senso di precarietà costante.
Nnamdi Okwu Kanu, 58 anni, cittadino britannico oltre che nigeriano, è oggi la figura più conosciuta del separatismo igbo contemporaneo. Dopo aver fondato l’Indigenous People of Biafra (IPOB), dichiarata organizzazione terroristica dal governo nel 2017, e dopo aver diretto Radio Biafra, ha interpretato il malcontento della regione trasformandolo in un movimento transnazionale. Il suo primo arresto risale al 2015. Due anni dopo, durante la libertà su cauzione, scompare dal Paese. Nel 2021 viene riportato in Nigeria dopo un fermo in Kenya che i suoi legali definiscono “extraordinary rendition” e che ha sollevato critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani. Da allora è detenuto dal Department of State Services (DSS) in condizioni spesso contestate dai suoi sostenitori.
Il processo, nel tempo, ha cambiato diversi giudici e sedi ed è stato segnato da ricorsi e incidenti procedurali. Nel 2025 il caso finisce nelle mani del giudice Omotosho. Negli ultimi mesi Kanu ha ripetuto in aula di non riconoscere l’autorità del tribunale e di considerare l’intero procedimento illegittimo. L’allontanamento prima della lettura del verdetto ha confermato una tensione evidente. Sullo sfondo si muove tutta la storia della Nigeria: ogni svolta giudiziaria che riguarda Kanu riapre memorie ancora vive della guerra del Biafra del 1967-70, che provocò oltre un milione di morti e lasciò una frattura identitaria mai davvero sanata.
Nelle settimane precedenti alla sentenza, la capitale è stata teatro di proteste disperse con lacrimogeni e posti di blocco; la polizia ha schierato veicoli blindati temendo disordini. La condanna non è un semplice epilogo giudiziario ma un banco di prova per l’ordine pubblico nazionale. Il governo federale sostiene che la sentenza rappresenti un passo per ristabilire la normalità nel Sud-Est, mentre osservatori indipendenti avvertono che gruppi armati decentrati potrebbero rispondere con nuove intimidazioni.

Intanto, il movimento separatista vive divisioni interne. Fuori dalla Nigeria, una delle figure più controverse è Simon Ekpa, che ha guidato una fazione di IPOB e un presunto “governo in esilio” dalla Finlandia. Nel 2025 è stato condannato a sei anni per reati legati al terrorismo e alla frode fiscale, alimentando la percezione di una rete transnazionale difficile da controllare e con ramificazioni che superano i confini del Paese. La sentenza di Abuja non lo riguarda direttamente, ma il suo ruolo riflette la frammentazione di un movimento che negli anni ha parlato con molte voci.
La base giuridica della condanna è la Terrorism Prevention (Amendment) Act del 2013, una legge che consente pene severissime per reati di terrorismo. La corte ha accolto un’interpretazione ampia dell’incitamento e della preparazione di atti violenti via media, includendoli nel perimetro delle condotte punibili come terrorismo. Non sono state accolte le argomentazioni della difesa sulla giurisdizione o sulla presunta invalidità degli atti derivante dal fermo in Kenya. Il tribunale ha esplicitato che il diritto all’autodeterminazione è “politico” e non può essere esercitato attraverso strumenti violenti o fuori dal quadro costituzionale.
All’esterno dell’aula, la procura federale ha definito la condanna “una vittoria della legge”, sottolineando di aver chiesto la pena di morte fino all’ultimo. Figure politiche del Sud-Est, anche vicine a Kanu, hanno invece chiesto clemenza, temendo che una pena così severa possa alimentare ulteriore risentimento. Le forze dell’ordine hanno mantenuto una linea di massima allerta, consapevoli che le reazioni possono variare da manifestazioni pacifiche a nuove azioni intimidatorie di frange radicali.
Sul piano geopolitico si apre ora una fase nuova. Kanu è cittadino britannico e la diplomazia di Londra ha già manifestato interesse per il caso. Il Regno Unito, insieme ad altre cancellerie occidentali e a ONG internazionali, potrebbe sollevare questioni relative ai diritti umani, alle condizioni di detenzione e all’accesso agli avvocati. Parallelamente, il governo del presidente Bola Tinubu cerca stabilità: l’economia ha bisogno di fiducia, investimenti e un clima di sicurezza prevedibile. Ogni tensione nel Sud-Est si riflette sulla capacità del Paese di attrarre capitali e di mantenere un fragile equilibrio interno.
La condanna apre la strada all’appello dinanzi alla Corte d’Appello federale. La difesa potrà contestare l’inquadramento giuridico delle condotte, la gestione delle udienze, la mancata partecipazione al controesame e la crisi dell’intero collegio difensivo. Ma al di là dei tecnicismi, resta un punto centrale: il verdetto non chiude la questione biafrana. La giustizia può archiviare un fascicolo; la politica, invece, deve affrontare un sentimento identitario che sopravvive da più di cinquant’anni.
In un Paese in cui memoria storica, tensioni regionali e ricerca di riconciliazione convivono in equilibrio instabile, la sentenza su Nnamdi Kanu non rappresenta solo un giro di vite contro il terrorismo: diventa un messaggio sul tipo di Stato che la Nigeria vuole essere. Per ora ha scelto di dire no alla pena di morte, sì a un carcere a vita che segnerà una fase nuova e tutt’altro che semplice. E, soprattutto, ha scelto di riaffermare un principio: nel confronto tra un’idea di Biafra affidata ai microfoni e la tutela dell’ordine costituzionale, la bilancia, almeno per ora, pende verso lo Stato.
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