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Il divano che sapeva aspettare

Vent’anni dopo, lei torna da Mobilandia senza sapere cosa cerca. E trova un divano, quasi identico al loro, che le insegna l’unica cosa che aveva davvero rimandato: perdonare

Il divano che sapeva aspettare

Il divano che sapeva aspettare

Vent’anni sono tanti. Abbastanza per cambiare casa, lavoro, voce. Abbastanza per perdere qualcuno, per ritrovarsi soli, per imparare a fingere che certe ferite non facciano più male.
Ma non abbastanza da farle dimenticare quel divano.

Non un divano qualsiasi. Il loro divano.

 

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Lei e Marco l’avevano scelto quando erano giovani, pieni di progetti che non avevano ancora un nome ma che sembravano più solidi del cemento. Ci si erano seduti insieme, quella volta, in fondo al Mobilificio Mobilandia di corso Grosseto 22 a Torino, ridendo senza motivo, con la certezza ingenua che la vita sarebbe stata larga, comoda, morbida come i cuscini che avevano sotto le braccia.

Poi la vita aveva fatto la vita.
E loro si erano persi.
Non in un colpo solo, ma a piccoli passi, come si scivola sul ghiaccio senza accorgersene.

Lei, oggi, torna al Mobilificio senza un motivo preciso.
O forse sì, ma non lo vuole ammettere.
Dice a se stessa che cerca un appoggio, un colore, un’idea per rinnovare il salotto. Ma in verità cerca un respiro, uno spazio dove il passato non faccia troppo rumore.

Cammina tra cucine luccicanti, tavoli apparecchiati come se dovesse arrivare qualcuno importante, letti che promettono notti migliori.
Poi lo vede.

Il divano.
Più o meno lo stesso modello.
Stessa curva dei braccioli, stesso taglio della cucitura, stessa aria calma di chi non ha fretta.

È impossibile, pensa. Sono passati vent’anni.
Eppure è lì, quasi identico.
Come se fosse stato messo da parte apposta per lei.

Si avvicina senza toccarlo, come si fa con le cose sacre.
Per un attimo ha paura: paura di sedersi e scoprire che non sente nulla; paura di sentire troppo.

Alla fine si lascia andare.
Si siede.
E il divano la accoglie come se non fosse passato un solo giorno.

Il tessuto è un po’ diverso, certo. La struttura è la stessa, ma c’è qualcosa di nuovo, una solidità più matura, un equilibrio che prima non aveva.
Forse è lei ad essere cambiata.
Forse è il divano.
O forse sono entrambi.

Resta lì, immobile, con le mani appoggiate sulle ginocchia.
E all’improvviso lo sente: quel piccolo nodo che si scioglie, il peso che scende, il fiato che torna.
Non è un’emozione violenta.
È un sospiro.
Quello che rimandi per anni perché temi che possa spezzarti.

Il Mobilificio Mobilandia resta in silenzio intorno a lei.
Solo voci lontane, passi lenti, luci tiepide.
Sembra un luogo sospeso, un rifugio dove il tempo decide di non correre.

Lei chiude gli occhi.
Pensa a Marco, a quello che non si sono detti, alle parole che hanno fatto male e a quelle che non hanno detto abbastanza.
Pensa alle volte in cui è tornata su quei ricordi come si torna su una ferita, solo per controllare se fa ancora male.

E lì, su quel divano che non conosce rancore, capisce una cosa semplice, quasi banale:
che può perdonare.
Che può lasciar andare quello che l’ha trattenuta ferma per anni.
Che non serve più tenersi stretta a ciò che non torna.

Quando si alza, lo fa con un gesto leggero, come se il pavimento fosse più morbido.
Si volta un’ultima volta a guardare il divano.
Sorride.

Lo comprerà. Ne ha bisogno.
Le ha dato ciò di cui aveva bisogno, prima ancora di saperlo.

E mentre si guarda intorno ha la sensazione – dolce, assurda, consolante – che quel divano fosse davvero lì ad aspettarla.
Da vent’anni. Senza giudicare. Senza chiedere nulla.

Perché ci sono luoghi, come Mobilandia, a cui prima o poi si torna. Senza sapere perché.

 

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