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19 Novembre 2025 - 12:03
Il Ministro Schillaci
È ormai inutile girarci attorno: l’intramoenia è diventata il grande inganno della sanità italiana. Un marchingegno nato, un tempo, per portare trasparenza nella libera professione dei medici dentro le strutture pubbliche, così da evitare ambulatori improvvisati, percorsi paralleli, prestazioni in nero. Un’intenzione persino lodevole, se solo non si fosse trasformata, nel tempo, in tutt’altro: in una gigantesca scorciatoia che consente di uscire dalle corsie del pubblico e rientrare mezz’ora dopo in una clinica privata, dove un minuto del loro tempo vale come se fosse incastonato d’oro. E mentre i cittadini aspettano mesi per una visita, mesi per un esame, mesi per una diagnosi, i medici che dovrebbero garantire il servizio pubblico scompaiono nel pomeriggio come nebbia al sole, lasciando dietro di sé reparti svuotati, uffici chiusi, telefoni muti.
Alle due del pomeriggio, nella maggior parte degli ospedali italiani, non trovi un primario nemmeno a pagarlo oro. È una scena quotidiana che ormai non stupisce più nessuno. Piani interi deserti, studi sbarrati, luci spente. Non è organizzazione, non è emergenza improvvisa, non è gestione del personale: è un sistema. Un sistema costruito, pezzo per pezzo, per permettere a una parte consistente della classe medica di vivere con un piede nel pubblico – dove si ottiene la reputazione, la visibilità, la targa – e con l’altro ben piantato nel privato, dove le liste d’attesa non esistono e le agende si aprono miracolosamente.

E allora è inutile scandalizzarsi quando il ministro Orazio Schillaci osa toccare il “totem” dell’intramoenia. Bisogna dargliene atto: ha detto ciò che da vent’anni nessuno aveva avuto il coraggio di dire. Ha messo il dito nella piaga, ha fatto notare l’ovvio, ha svelato ciò che tutti – medici compresi – sanno benissimo. E infatti è bastato pronunciare la parola “riforma” perché esplodesse il solito teatrino: ordini professionali indignati, sindacati in trincea, associazioni di categoria pronte a gridare all’attacco alla professione. Il copione è sempre quello: chiunque osi sfiorare l’intramoenia viene dipinto come un nemico della sanità pubblica.
L’assurdità è che è vero esattamente il contrario: è proprio l’intramoenia a indebolire il pubblico, non chi propone di limitarla o cancellarla. Basta un ragionamento semplice: le liste d’attesa sono fatte di medici, di tempo lavorativo, di slot disponibili. Se una parte del tempo viene trasferita – di fatto o di diritto – sulla libera professione, è inevitabile che il pubblico perda capacità operativa. È aritmetica, non polemica. Ma guai a dirlo: si rischia di offendere un equilibrio che fa comodo a molti.
Il problema, però, non è solo tecnico: è culturale. L’intramoenia ha creato un paradigma tossico in cui il pubblico diventa il dovere e il privato l’opportunità. Il pubblico è la fila interminabile, il turno massacrante, l’agenda intasata. Il privato è il sorriso, la disponibilità, il tempo, il guadagno. Quando un sistema sanitario trasmette implicitamente ai suoi professionisti che la parte più prestigiosa e più soddisfacente della loro giornata è quella privata, non c’è riforma che tenga: quel sistema è già crollato.
Il nodo più sporco, però, riguarda i primari. In teoria dovrebbero essere l’anima dei reparti, le guide cliniche e organizzative, i punti di riferimento per gli specializzandi. In pratica, troppo spesso, sono diventati il tappo che tiene tutto fermo. Hanno il potere di decidere chi cresce e chi resta schiacciato nei gradini bassi. E quel potere è strettamente legato alla libera professione: un primario che guadagna bene nel privato non ha alcun interesse a favorire la crescita dei suoi giovani, perché un giovane brillante, preparato e competente – magari con idee, entusiasmo e voglia di cambiare le cose – rappresenta una minaccia per la sua dominanza di reparto, per la sua visibilità e, diciamolo, per la sua clientela. Perché di questo si tratta: clientela.
E poi basta con questa favola ormai ridicola secondo cui “i medici in Italia guadagnano poco”. È una narrazione comoda, buonista, utile come scudo. Ma è falsa. Certo, ci sono medici che faticano. Certo, ci sono reparti sottopagati e turni pesanti. Ma ci sono anche medici – soprattutto quelli con il doppio binario, soprattutto quelli con posizioni apicali – che guadagnano da far schifo, cifre che superano i 200, 300, 400 mila euro l’anno sommando pubblico e privato. E se un guadagno “fa schifo”, se supera ogni proporzione, significa che la struttura che lo permette è marcia. Perché quando un medico guadagna cifre immense grazie alla reputazione costruita nel pubblico e incassata nel privato, non è più prestigio professionale: è un problema etico, è un disequilibrio mostruoso, è il segno che il sistema pubblico viene saccheggiato. Perché quei soldi non arrivano dal cielo: arrivano da pazienti disperati che, non trovando posto nel pubblico, devono pagare.
E intanto i giovani se ne vanno. A migliaia. Germania, Francia, Regno Unito. Svizzera, Svezia, Olanda. Perfino Qatar, Emirati, Australia. Se ne vanno perché qui non c’è spazio, perché le carriere sono bloccate da figure che non si muovono più, perché la meritocrazia è un optional, perché il mondo della libera professione succhia energie al sistema pubblico invece di sostenerlo. Se ne vanno perché qui vieni valutato per il “chi” ti sta sopra, non per “cosa” sai fare.
Eppure ogni volta che si prova a collegare intramoenia e liste d’attesa, arriva la risposta più irritante del dibattito sanitario italiano: “Non c’entra nulla.”
Certo. E infatti pagando ti visitano domani, mentre nel pubblico ti danno appuntamento tra quattro mesi. Un mistero degno di Voyager. O forse la prova più lampante che il sistema è costruito per drenare pazienti dal pubblico al privato.
A questo punto non servono più giri di parole: l’intramoenia non va riformata, va cancellata. Non è compatibile con un servizio sanitario pubblico che vuole essere davvero universale. Bisogna scegliere.
O fai il medico pubblico.
O fai il medico privato.
Le due cose insieme non stanno più in piedi. Non possono stare insieme. Non devono stare insieme.
Hai lavorato nel pubblico, ti sei fatto un nome nel pubblico, hai ottenuto prestigio grazie al pubblico. Benissimo.
Poi hai deciso che il privato è più comodo, più redditizio, più libero. Ottimo. È una scelta come un’altra.
Ma se scegli il privato, fai un favore all’Italia: vattene dal pubblico. E soprattutto: vai fuori dai coglioni.
Perché il pubblico non è una vetrina dove fai curriculum per poi arricchirti altrove.
Il pubblico è un servizio.
E chi non lo capisce, nel pubblico non ci deve stare nemmeno un minuto di più.
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