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19 Novembre 2025 - 00:02
“Cielo grigio su Ein el-Hilweh”: tredici morti in un attacco vicino al più grande campo profughi palestinese del Libano (Photo: video grab)
La colonna di fumo si alza oltre le baracche di lamiera e cemento grezzo, si arrampica sopra i tetti affollati di antenne e serbatoi d’acqua e per qualche istante mangia il profilo del mare di Saida. Dentro il labirinto di Ein el-Hilweh le sirene rimbalzano sulle facciate scrostate, un’ambulanza taglia in due un vicolo, i soccorritori scendono con barelle improvvisate perché di meglio, qui, non c’è. È in questo scenario che, nella mattinata di martedì 18 novembre 2025, un attacco aereo ha ucciso almeno tredici persone e ne ha ferite quattro, secondo un bilancio delle autorità sanitarie libanesi circolato nelle prime ore. Ma come sempre, quando la guerra è a fuoco lento e le fonti diventano armi, le cifre non coincidono: altre versioni ufficiali parlano di undici morti, segno che il conteggio è ancora in movimento e che raggiungere l’area, metterla in sicurezza e separare i vivi dai resti è un’operazione che richiede tempo, sangue freddo e un minimo di fortuna.

L’Esercito israeliano, l’IDF, sostiene di aver colpito “militanti” di Hamas all’interno di un “campo di addestramento” ricavato in piena area urbana. La nota parla di una struttura usata “per preparare attacchi contro Israele”, ma oltre alla frase stampata non c’è nulla: nessuna immagine, nessuna coordinata, nessuna traccia verificabile. Nemmeno un frammento di quello che, in gergo militare, si chiama “evidenza condivisibile”. Hamas ribalta tutto: secondo il movimento, l’esplosione avrebbe centrato un campo sportivo e il parcheggio della moschea vicina, senza alcuna presenza militare. In mezzo rimane il vuoto, quello che di solito si riempie con indagini indipendenti, testimonianze dirette, analisi balistiche. Ma l’accesso al campo, anche ad ambulanza spenta, è sempre complicato: strade strette, case appiccicate, fazioni armate che controllano il territorio e una densità umana che fa di Ein el-Hilweh un microcosmo ingestibile.
Secondo le prime ricostruzioni, un drone avrebbe centrato un veicolo nel parcheggio della moschea, innescando un incendio e un effetto-soffio che ha bruciato tutto ciò che era attorno. Le immagini diffuse da testate internazionali mostrano la scena già nota: soccorritori che corrono, fumo che sale, macerie, e quella sensazione che ogni esplosione sia identica alla precedente, perché nei campi palestinesi del Libano il tempo non porta mai tregua, solo nuove ferite che si sommano alle vecchie. Il Ministero della Salute libanese ha parlato di tredici vittime, altre comunicazioni di undici. La discrepanza è il marchio di fabbrica delle prime ore: troppe variabili, troppo caos, troppi ostacoli per chi deve entrare, identificare, evacuare.
Ein el-Hilweh, il più grande campo palestinese del Paese, non è un luogo come gli altri. È un’eredità della Nakba che si è espansa per ondate, una città nella città, chiusa in 0,3 chilometri quadrati e spinta per decenni ai margini della legalità, dove le Forze armate libanesi non entrano se non per accordi specifici e le fazioni si autogestiscono come micro-governi. Le stime oscillano tra 63.000 e 80.000 residenti, numeri che cambiano in base alle registrazioni, ai movimenti dei rifugiati siriani e alla cronica assenza di un censimento affidabile. Negli ultimi anni è diventato un sinonimo di vulnerabilità permanente: scontri interni, scuole dell’UNRWA occupate da uomini armati, migliaia di sfollati temporanei. Nel 2023, le violenze tra Fatah e formazioni islamiste bloccarono l’accesso all’istruzione per oltre 11.000 bambini. L’UNRWA denunciò ripetute violazioni della neutralità; Save the Children parlò di 20.000 sfollati in pochi giorni. Il campo, oggi, è l’emblema di una comunità che sopravvive più che vivere, che sa che ogni giornata può finire come quella di martedì.
Il raid arriva in un momento che molti continuano a chiamare “tregua” tra Israele e Hezbollah, anche se il termine suona generoso. L’accordo, firmato a fine 2024, era pensato per congelare le ostilità, non per fermarle davvero. Da allora, il sud del Libano è rimasto un terreno instabile, percorso da incursioni aeree e da operazioni mirate su entrambe le linee del fronte. L’IDF ha rivendicato più volte la neutralizzazione di figure di Hamas in territorio libanese, anche nell’area di Sidone. Beirut ha contestato diversi raid, accusando Israele di colpire zone a prevalenza civile. Due narrazioni, due verità che non combaciano mai del tutto e un rischio regionale che cresce a ogni detonazione.
E il nodo, come in ogni crisi ripetuta, rimane quello più scomodo: le vittime civili. Ogni attacco in un’area densamente popolata aumenta la probabilità di colpire chi non porta armi, chi stava andando a scuola, chi stava pregando, chi stava semplicemente tentando di vivere. Non è un’ipotesi né un’astrazione: sono due anni che inchieste internazionali e rapporti ONU documentano l’impatto della guerra sui civili e sugli operatori dell’informazione. In Libano, lo ricorda ancora il caso del reporter di Reuters Issam Abdallah, ucciso al confine da colpi di carro armato israeliano nel 2023. E pesa ancora l’indagine della BBC che, pochi mesi fa, ha ricostruito un attacco a un edificio residenziale con 73 vittime civili, nonostante la rivendicazione di un obiettivo Hezbollah. Non spiegano ciò che è accaduto a Ein el-Hilweh, ma ne illuminano la cornice: in contesti come questo, la distinzione tra target militare e popolazione civile si assottiglia fino quasi a scomparire.
Le immagini filtrate oggi dal campo mostrano volontari della Croce Rossa libanese e della Mezzaluna impegnati tra detriti, auto incendiate, carcasse di edifici, mentre cercano di aprirsi un varco per raggiungere i feriti. Le organizzazioni umanitarie ricordano da tempo che il Diritto internazionale umanitario non è un’opinione: ambulanze, operatori sanitari, civili e feriti devono essere protetti. Ma sul campo queste norme si piegano, si sfilacciano, diventano ostacoli più che garanzie. L’IFRC, la Federazione Internazionale, aveva già lanciato nel 2024 un appello da 100 milioni di franchi svizzeri per sostenere la risposta in Libano. La Croce Rossa libanese parla di missioni continue, decine di migliaia dall’inizio dell’escalation. Ogni giorno una corsa contro il tempo, e ogni raid spinge un po’ più in là il limite sopportabile.
Ein el-Hilweh non è solo un nome, è un archivio vivente di marginalità. Mentre diplomatici e funzionari discutono di come procedere al disarmo delle fazioni palestinesi nei campi — un processo lungo, fragile, fatto di consegne simboliche e resistenze — la quotidianità resta inchiodata alla povertà, ai servizi intermittenti, alle strutture educative chiuse o parzialmente inagibili, ai bisogni sanitari che crescono più rapidamente degli aiuti. L’UNFPA e UNICEF parlano di decine di migliaia di sfollati interni e rientri in case danneggiate. Gli appelli di finanziamento restano sottofinanziati: a gennaio 2025, l’UNFPA segnalava un fabbisogno di 40 milioni di dollari coperto appena al 14%. Il campo vive in uno stato di attesa permanente, sempre sull’orlo di un’altra emergenza.
Di ciò che è accaduto martedì sappiamo l’essenziale: l’orario, il luogo, il numero variabile delle vittime, le versioni contrapposte. Non sappiamo chi siano le persone uccise, né se tra loro ci fossero militanti, civili, minori, anziani. Non sappiamo quale fosse la traiettoria dell’ordigno, né che tipo di munizione sia stata usata. Non sappiamo se ci fosse una presenza armata significativa nell’area, né come sia stata valutata la proporzionalità dell’azione in un contesto così compresso. Lo diranno soltanto indagini indipendenti, analisi forensi, accessi integrali all’area. E sappiamo, perché lo insegna ogni precedente, che quando le versioni sono così distanti, il rischio è quello di lasciare che siano le narrazioni — e non i fatti — a stabilire chi sia morto e perché.
Intanto, per chi vive a Ein el-Hilweh, l’attacco di martedì non è una cronaca di geopolitica, è l’ennesima interruzione della normalità: la scuola che non riapre, il dispensario senza scorte, il lavoro precario che si ferma, il timore che la prossima esplosione arrivi più vicino. Gli organismi umanitari denunciano bisogni crescenti: assistenza sanitaria primaria, supporto psicosociale, alloggi temporanei, acqua, igiene. La Croce Rossa libanese continua a raccogliere fondi per mantenere ambulanze operative e scorte di sangue. E ognuno, dentro il campo, sa che finché la militarizzazione dello spazio civile non verrà affrontata con meccanismi reali di protezione, ogni nuova esplosione allungherà la ferita che attraversa questo angolo di Libano da più di settant’anni.
Le verifiche indipendenti, l’accesso alle aree colpite, la pressione diplomatica e la protezione concreta delle comunità civili dovrebbero essere il minimo comune denominatore di qualunque intervento internazionale. Ma qui, come altrove, la distanza tra ciò che dovrebbe accadere e ciò che accade davvero è un abisso. E finché resterà così, ogni mattina potrà ricominciare nello stesso modo: una colonna di fumo che sale tra le baracche, un’ambulanza che si ferma, corpi da sollevare da terra, storie che nessuno ha il tempo di ascoltare. Un campo che sopravvive, nonostante tutto, sapendo che la prossima esplosione potrebbe cancellare non solo un vicolo, ma anche la verità su ciò che è accaduto.
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