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19 Novembre 2025 - 02:00
Masafer Yatta, la terra contesa dove la violenza non si ferma mai
Un pomeriggio di vento nel Sud di Hebron, mentre la polvere scivola sulle colline di Masafer Yatta, una carovana di auto bianche senza targa imbocca la pista che taglia i rilievi bruciati dal sole. Dalle portiere scendono uomini incappucciati, alcuni nemmeno maggiorenni. Impugnano fucili d’assalto e bastoni, avanzano veloci, e un padre trascina il figlio verso la grotta di famiglia trasformata in rifugio. Non è la scena di un set cinematografico, ma il racconto quotidiano raccolto dalle voci di Hamudi Hureini, di Basel Adra e delle volontarie internazionali che presidiano la zona. È la superficie visibile di una stagione di violenze che ha toccato un picco mai registrato prima: nell’ottobre 2025 l’ONU-OCHA ha contato 264 attacchi di coloni in Cisgiordania, il dato mensile più alto da quando, nel 2006, è iniziato il monitoraggio.

Per capire perché questa porzione di colline sia diventata un teatro di aggressioni ricorrenti bisogna tornare a una decisione degli anni Ottanta, quando Israele dichiarò quasi 3.000 ettari dei Monti di Hebron “Firing Zone 918”, area militare destinata all’addestramento. Nel maggio 2022 l’Alta Corte israeliana ha confermato quella scelta, aprendo la strada agli sgomberi di circa 1.000 residenti palestinesi. Le organizzazioni umanitarie hanno parlato subito di rischio di trasferimenti forzati e ricordato i numeri della pressione già in atto: secondo il Norwegian Refugee Council, dal 2011 nella sola Masafer Yatta sono state demolite o confiscate 217 strutture, con 608 sfollati, mentre in tutte le zone di tiro dell’Area C vivono almeno 38 comunità palestinesi esposte al rischio di rimozioni.
Le testimonianze raccolte dalle volontarie di Operazione Colomba e dal progetto “Mediterranea with Palestine” descrivono un copione che cambia raramente: gli uomini arrivano dagli avamposti come Havat Ma’on, inseguono i pastori, entrano nei campi di ulivi, e quando sopraggiungono i soldati — raccontano i testimoni — chiedono ai palestinesi di arretrare, mentre i coloni restano sul posto. I volontari presenti ad At-Tuwani, Khallet al-Daba’ e nei villaggi vicini parlano di dozzine di demolizioni documentate tra gennaio e maggio 2025 e di un aumento della presenza armata attorno alle comunità. I dati di OCHA confermano la tendenza: tra il 1° ottobre e il 10 novembre 2025 si contano 167 attacchi connessi alla raccolta delle olive, in 87 centri abitati, con oltre 5.700 alberi vandalizzati e 151 palestinesi feriti. Un’impennata che segna una rottura rispetto alle stagioni precedenti.
Nel racconto degli abitanti emerge sempre più spesso un profilo che inquieta: giovanissimi, a volte poco più che bambini, cresciuti in insediamenti dove l’arma non è eccezione ma identità. Dopo il 7 ottobre 2023, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha allargato i criteri per ottenere il porto d’armi e potenziato le “squadre di risposta rapida”. Le domande sono schizzate oltre quota 256.000 e tra il 2024 e il 2025 si sono moltiplicate le nuove licenze, anche tra le donne. Il risultato è un territorio permeato da civili armati che si muovono come pattuglie, improvvisano posti di blocco, seguono gli abitanti e intervengono nelle contese con modalità paramilitari. A ottobre 2025 l’ONU ha registrato 264 episodi in un mese, otto al giorno. Le agenzie internazionali parlano apertamente di violenza sistematica e di impunità.
In questo clima la storia di Basel Adra, il giornalista cresciuto ad At-Tuwani, risuona come simbolo. Con altri tre autori ha girato “No Other Land”, documentario che nel 2024 ha vinto alla Berlinale e nel 2025 ha conquistato l’Oscar, portando al centro del dibattito globale la lotta delle comunitità di Masafer Yatta. Ma il successo non ha garantito protezione: nell’autunno 2025 Adra ha denunciato nuovi assalti ai villaggi e un raid di soldati nella sua abitazione con controlli ai telefoni e blocchi stradali che gli hanno impedito di rientrare. Associated Press ha verificato i video delle aggressioni ai suoi familiari da parte di coloni. Non è un caso isolato. Nel villaggio di Umm al-Khair, il 28 luglio 2025, l’attivista Awdah Hathaleen è stato ucciso da un colono. Le immagini — riprese anche dalla vittima — hanno fatto il giro del mondo, costringendo diversi governi a intervenire con note ufficiali di condanna.
Le accuse che gli abitanti muovono non riguardano solo la violenza dei coloni, ma la protezione istituzionale che, secondo loro, ne favorisce l’azione. L’ONG israeliana Yesh Din ha analizzato 18 anni di fascicoli relativi ai reati ideologici commessi da civili israeliani contro palestinesi: il 93,7% si è concluso senza rinvii a giudizio, solo il 6,6%ha prodotto un’accusa e appena il 3% una condanna. Un dato che gli avvocati definiscono la prova di un sistema incapace — o non intenzionato — a tutelare le vittime palestinesi. Sul campo la sensazione si traduce in episodi concreti. A marzo 2025, a Susiya, coloni e soldati hanno parteciapto allo stesso intervento che ha portato al fermo di Hamdan Ballal, co-regista di “No Other Land”. È un comportamento già visto in occasione del pogrom di Huwara nel febbraio 2023 e in altri attacchi poco documentati.
Il territorio di Masafer Yatta è punteggiato da minuscoli villaggi come At-Tuwani, Sarura, Khirbet al-Fakhit, Khallet al-Daba’, Shi’b al-Butm e al-Halawa, stretti tra avamposti e insediamenti israeliani come Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on. Qui i bambini di Tuba percorrono ogni giorno una pista che costeggia Havat Ma’on accompagnati da scorte militari, necessarie per proteggerli da aggressioni. Attorno le strade restano dissestate, le cisterne vengono spesso sabotate e le reti elettriche improvvisate vengono rimosse con facilità. Ogni demolizione — stalle, magazzini, cisterne, pannelli solari — smantella un pezzo di economia di sussistenza fondata sulla pastorizia e piccola agricoltura. La stagione delle olive, che per centinaia di famiglie rappresenta un reddito essenziale, nel 2025 si è trasformata in una serie continuativa di incursioni, furti di attrezzature, alberi sradicati, roghi e aggressioni, con volontari e giornalisti feriti.
La normalizzazione dell’arma nelle comunità dei coloni è un fenomeno che gli attivisti riassumono in un’espressione amara: “ragazzi resi miliziani”, giovani cresciuti in un clima di paura e retorica securitaria trasformata in identità. Le licenze d’armi concesse dopo il 7 ottobre 2023, insieme al sostegno politico alle squadre civili di protezione e al messaggio secondo cui “più armi in buone mani salvano vite”, hanno inciso profondamente sull’immaginario e sulle dinamiche locali. Ogni contenzioso divenuto confronto armato, ogni frizione diventata minaccia, è parte di questa trasformazione culturale.
Anche le istituzioni israeliane hanno dovuto prendere posizione: il Presidente Isaac Herzog e alcuni vertici militari hanno definito “scioccanti” diversi attacchi recenti, promettendo tolleranza zero. Promesse che, però, non hanno ancora trovato riscontro nei risultati giudiziari, fermi di fronte alla complessità del territorio e a una catena di responsabilità difficili da ricostruire. Intanto, tra ordini di demolizione, chiusure stradali e confische, la pressione sulle comunità palestinesi continua a crescere.
La visibilità ottenuta da “No Other Land” dopo i premi di Berlino e Hollywood ha attirato l’attenzione internazionale sulla zona, ma non ha raffreddato la tensione. Anzi, gli abitanti raccontano che, dopo il ritorno dagli Oscar 2025, nei villaggi è arrivata una sorta di “punizione” per aver esposto al mondo le immagini di demolizioni e sgomberi. La resistenza oggi assume forme minime: rimettere in piedi un tetto, sostituire una cisterna, tornare nel campo il giorno dopo un’aggressione. È la somma di questi piccoli gesti a misurare, più delle sentenze e più delle risoluzioni, la capacità di sopravvivere.
In questo intreccio di soprusi, dati e testimonianze, il ruolo di figure come Hamudi (Mohammad) Hureini, che accompagna i bambini verso la scuola, documenta gli attacchi e ricostruisce gli spazi vitali dei villaggi, resta centrale. Così come resta centrale la presenza di osservatori terzi: i volontari di Mediterranea, quelli di Operazione Colomba, le reti israeliane come Machsom Watch. La loro presenza è spesso l’unico argine alla violenza, un deterrente che non può fermare gli attacchi ma può documentarli, trasformandoli in prove.
Masafer Yatta è oggi un laboratorio dove si misura la tenuta del diritto internazionale. Se qui passano sgomberi e trasferimenti forzati, se qui la violenza armata dei civili rimane senza conseguenze, il precedente rischia di segnare decine di altre comunità della Cisgiordania. L’equilibrio tra sicurezza e diritti, brandito come giustificazione per ogni misura, si sta trasformando in un lessico che nasconde una realtà molto più cruda: l’erosione progressiva della possibilità stessa di una vita normale.
Al tramonto, quando la luce cala sui villaggi e sui terrazzamenti, restano i numeri: 264 attacchi in un mese, 93,7% di indagini chiuse senza imputati, una lista di case perquisite e alberi bruciati. Restano i nomi: Awdah Hathaleen ucciso a luglio, Basel Adra bloccato ai posti di controllo, Hamudi Hureini fermato mentre accompagna i pastori. E restano i gesti più semplici, quelli che fanno da scudo alla dissolvenza della quotidianità: un ulivo potato per tornare a fruttare, un muretto rialzato, una cisterna riparata. Forse è lì, in quei gesti che non fanno notizia, che la storia prova ancora a cambiare direzione.
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