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Trump alza il mirino sul Messico: “Attaccherò le narcolance”. La portaerei diventa un messaggio di guerra

Tra minacce “orgogliose”, 15.000 militari schierati e oltre 70 morti negli attacchi in mare, la dottrina anti-fentanil di Donald Trump sfiora il limite del diritto internazionale e mette a rischio la cooperazione con Claudia Sheinbaum proprio mentre i dati indicano che la droga entra dagli stessi porti in cui servirebbe più intelligence, non più bombe

Trump alza il mirino sul Messico: “Attaccherò le narcolance”. La portaerei diventa un messaggio di guerra

Trump alza il mirino sul Messico: “Attaccherò le narcolance”. La portaerei diventa un messaggio di guerra

Una scia di carburante sull’oceano, il rombo di un F-18 che si alza dal ponte della USS Gerald R. Ford e, a migliaia di chilometri, una lancia che sfreccia sul pelo dell’acqua con pacchi di cellophane legati alla prua. In mezzo, due Paesi che “partnership” la chiamano solo nei comunicati ufficiali: economia da centinaia di miliardi, scambi vitali, cooperazione obbligata. Ma anche un confine che, nel 2025, è tornato ad essere la linea di separazione tra due visioni del mondo. Quando il 17 novembre, nel Deskbio Ovale, Donald Trump ha pronunciato la frase “Sarei orgoglioso di ordinare attacchi contro le narcolance del Paese vicino. Non dico che lo farò, ma sarei orgoglioso di farlo”, non ha parlato al pubblico americano. Il messaggio era diretto a sud del Rio Grande e a chi, tra Caribe e Pacifico, osserva la più imponente presenza militare statunitense degli ultimi anni, quasi 15.000 uomini, con la portaerei più avanzata della flotta come biglietto da visita. La domanda resta sospesa: fin dove arriva la retorica e dove comincia una dottrina di fatto? E soprattutto: quanto è compatibile tutto questo con il diritto internazionale e con una cooperazione già fragile con il governo di Claudia Sheinbaum?

Davanti alla stampa, il Presidente ha insistito di “non essere contento con il Messico”: formula vaga quanto sufficiente per aprire un ventaglio di opzioni, comprese quelle che nessun alleato vorrebbe sentire in una conferenza stampa. Le “autorizzazioni all’uso della forza” evocate da Trump non sono state spiegate né nel merito né nel metodo. Ha evitato di dire se avesse informato Sheinbaum, e ha sorvolato sull’eventualità, decisiva, di ottenere il consenso formale di Città del Messico per operazioni in acque territoriali messicane. La Casa Bianca nasconde l’ambiguità dentro la cornice della “guerra ai narcoterroristi”, un’etichetta introdotta a settembre per legittimare una campagna di attacchi letali nel Caribe e nell’Est Pacifico contro imbarcazioni giudicate “sospette”. L’arrivo della USS Gerald R. Ford in area SOUTHCOM è diventato così il simbolo di una nuova postura: oltre 4.000 marinai, 75 aeromobili, cacciatorpediniere in scorta e un linguaggio politico che sembra voler spostare il baricentro da operazione di interdizione a pressione militare vera e propria. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno rivendicato almeno 19 sortite con uso letale nell’arco di poche settimane. Le stime parlano di 70-76 morti, identità non rese pubbliche, procedure non chiarite. Un contesto ideale per chi, dalle relazioni ONU ai giuristi di mezza accademia, avverte del rischio concreto di esecuzioni extragiudiziali fuori da qualunque conflitto armato riconosciuto.

Lo sfondo di tutto è il fentanil, oppioide sintetico diventato il trauma collettivo degli Stati Uniti contemporanei. La DEA lo ripete da anni: è la minaccia prioritaria per la salute pubblica. Negli ultimi anni ha causato la quota dominante delle oltre 100.000 morti annuali per overdose. Le valutazioni dell’agenzia federale sono chiare: i cartelli Sinaloa e Jalisco Nueva Generación rappresentano il vertice della filiera, con precursori chimici che arrivano spesso dalla Cina, sintesi su larga scala in Messico e trasporto dentro gli Stati Uniti principalmente attraverso porti di ingresso ufficiali. La National Drug Threat Assessment 2024 e la NDTA 2025 sono inequivocabili: la maggior parte del fentanil entra su ruote, dentro auto e camion, non su barche che attraversano di notte il Pacifico. I dati DHS e GAO lo confermano: tra FY2021 e FY2024 circa l’80% dei sequestri federali è avvenuto nell’area della Southwest Border Region, con il 63% dei sequestri ai porti di ingresso. Una fotografia che non coincide con l’immaginario della “narcolancia inseguita dal jet”, ma che resta ostinatamente la più vicina alla realtà.

Intanto, nel teatro caraibico, l’arrivo della Gerald R. Ford ha alzato il livello dello scontro simbolico. Una portaerei, per definizione, non serve a fermare barche da tre metri con un fuoribordo da 250 cavalli. È uno strumento politico, un messaggio indirizzato anche ad attori che nulla hanno a che vedere con il fentanil. A Caracas, per esempio, dove Nicolás Maduro interpreta ogni movimento della flotta USA come un preludio a una pressione regionale più ampia. Nel frattempo, i militari americani rivendicano la legalità degli attacchi contro “narcoterroristi”, mentre studiosi del diritto internazionale ricordano che in mare aperto l’interdizione ha limiti precisi, e che il principio di “hot pursuit” non autorizza certo a bombardare un bersaglio. Il confine è netto: un conto è salire a bordo, sequestrare la merce, arrestare gli occupanti; ben altro è distruggere la barca con armi esplosive. In quel caso si entra nella zona proibita dell’Art. 2(4) della Carta ONU, che vieta l’uso della forza salvo autodifesa o mandato del Consiglio di Sicurezza. E colpire in acque messicane senza consenso diretto violerebbe in modo frontale la sovranità dello Stato costiero, aprendo una crisi diplomatica dagli effetti difficilmente prevedibili.

Da Città del Messico il messaggio è arrivato chiaro: la sovranità “non è negoziabile”. Claudia Sheinbaum lo ha ripetuto più volte, respingendo indiscrezioni su ipotetiche operazioni congiunte, intelligence condivise senza controllo messicano o truppe americane sul territorio. “Non accadrà”, ha detto. Parallelamente il governo rivendica i propri risultati: maxi-sequestri, indagini coordinate, collaborazione giudiziaria. Ma insiste anche su un punto che a Washington non piace ascoltare: la crisi non è unidirezionale. Le armi che alimentano i cartelli arrivano dagli Stati Uniti; la domanda interna di oppioidi è ancora una voragine; la complicità a nord del confine non è un dettaglio ma un motore.

Le rotte, poi, raccontano un’altra storia. Le go-fast e i semisommergibili sono una parte, visibile e spettacolare, della catena del narcotraffico, soprattutto per cocaina ed eroina. Ma i numeri sul fentanil continuano a riportare il baricentro sui porti di ingresso, sulle corsie doganali, sugli scanner, sulle spedizioni spezzettate, sulle reti di precursori chimici tra Cina, Messico e Stati Uniti. Nuove analisi indipendenti parlano di un “triangolo d’oro” che lega Baja California, Sonora e Sinaloa con l’Arizona, e che chiude il cerchio della crisi: droga verso nord, armi verso sud, denaro che viaggia in entrambe le direzioni.

La presenza della Gerald R. Ford non è D-Day, ma cambia il clima. Un attacco in acque messicane, anche senza vittime, sarebbe un terremoto diplomatico. Le relazioni commerciali, già stressate dai dazi del 25% imposti da Trumpnel febbraio 2025, precipiterebbero. La cooperazione di polizia ai porti di ingresso si congelerebbe. L’intelligence condivisa — essenziale proprio dove transita la maggior parte del fentanil — rischierebbe di evaporare. E senza quella, i carichi su ruote passerebbero con più facilità di quanto la Casa Bianca voglia ammettere.

Sul terreno della lotta al fentanil, la verità è scomoda: colpire le narcolance serve, ma serve relativamente. Le operazioni Blue Lotus, Artemis e gli indictments federali del 2024 hanno mostrato che i risultati più concreti arrivano da un mix di controlli doganali più intelligenti, targeting sui precursori, monitoraggio delle spedizioni “de minimis” e cooperazione investigativa. A muovere davvero la curva delle overdose è altro: accesso capillare al naloxone, terapie, tracciamento dei mix adulterati (xilazina, e ora anche medetomidina). La NDTA 2025 lo dice chiaramente. La “terapia d’urto” militare, al confronto, rischia di essere più spettacolo che risposta strutturale.

Resta la frase di Trump, quel “sarei orgoglioso” che in diplomazia pesa ben più di quanto sembri. Non è un inciso, è un segnale d’indirizzo. Significa disponibilità politica a sobbarcarsi la responsabilità di un’escalation. Significa costringere Sheinbaum a rispondere, irrigidendo la posizione messicana. Significa collegare in un unico pacchetto tre dossier che Washington non può permettersi di far esplodere insieme: sicurezza, commercio e migrazione. E significa, soprattutto, mettere a rischio la cooperazione proprio sul fronte dove gli Stati Uniti non possono fare da soli.

messico

La portaerei che pattuglia il Caribe è un’immagine potente. Ma la guerra al fentanil, se davvero vuole essere più di un gesto muscolare, si combatte nella polvere dei valichi, nei varchi controllati, nelle spedizioni di precursori, nella domanda interna che continua a mietere vittime. Ogni bomba sganciata in mare crea un precedente, alimenta tensioni, espone civili e operatori, indebolisce proprio quei canali che hanno prodotto i pochi risultati misurabili. Se l’obiettivo è salvare vite negli Stati Uniti, la linea non può essere quella dell’orgoglio personale di un Presidente, ma quella — spesso noiosa e invisibile — della cooperazione giudiziaria, dell’intelligence condivisa, dei controlli mirati. La Gerald R. Ford farà rumore; ma a decidere la partita saranno ancora una volta le corsie dei porti di ingresso, non le scie di benzina che si dissolvono dietro una narcolancia in fuga.

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