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Il cane non abbaia, ma Washington ulula: le email di Epstein scatenano l’inferno

Tre email dall'archivio Epstein, un nome oscurato e l'ombra su Trump: frammenti che chiedono trasparenza

Il cane non abbaia, ma Washington ulula: le email di Epstein scatenano l’inferno

Il cane non abbaia, ma Washington ulula: le email di Epstein scatenano l’inferno

Lo schermo trema, i pixel si sfilacciano come lana tirata, e in mezzo alla grana resta incisa una data: 2 aprile 2011. L’oggetto è un’email, il mittente Jeffrey Epstein, la destinataria Ghislaine Maxwell. Una frase spacca il silenzio come una sirena nel buio: «il cane che non ha abbaiato è Trump». Subito dopo, uno spillo: una «vittima» avrebbe «passato ore» nella casa di Epstein «con lui». È l’innesco di un ritorno di fiamma che travolge Washington e la sua litigiosissima periferia morale: tre email, rese pubbliche dai democratici della House Oversight Committee, riportano al centro della scena Donald Trump, un’amicizia mai davvero spiegata, un passato che non smette di ronzare, e la promessa — sempre differita — di una trasparenza che non arriva mai intera, sempre a frammenti, come l’anteprima di un film che non parte.

La versione dell’esecutivo scatta in difesa e gioca con l’aria di chi ha già visto lo spettacolo: «distrazione», dicono. La portavoce Karoline Leavitt mette in fila due capisaldi — la rottura con Epstein a Mar-a-Lago e l’assenza di condotte improprie — e spinge una chiave di lettura che prova a chiudere il rubinetto dei sospetti: la «vittima» oscurata sarebbe Virginia Giuffre, che negli anni aveva escluso comportamenti illeciti da parte di Trump e che oggi non può più parlare. Dall’altra parte, i democratici guidati dal ranking member Robert Garcia inchiodano le frasi nel cemento dei verbali: quelle email sollevano «domande inevitabili» e il Department of Justice deve smetterla di trattare la memoria collettiva come un caveau privato. In mezzo, resta un buco: il nome schermato, l’assenza di metadati, il contesto che non c’è. E la consapevolezza che tre screenshot non fanno un processo, ma nemmeno consentono di archiviare tutto con un’alzata di spalle.

Il primo messaggio, quello del 2011, è la miccia e il metodo. Epstein scrive, Maxwell risponde: «ci ho pensato». Nessun luogo, nessun testimone, nessuna cornice. Ma dentro quelle poche righe, il gioco delle parti è già tutto lì: insinuazione, rimando, omissione. Anni dopo, nel 2015, entra in scena Michael Wolff: con lui, Epstein ragiona su come trasformare eventuali smentite di Trump in «valuta di PR». È l’odore acre della politica-spettacolo: l’informazione come leva, la negazione come carburante. Quattro anni dopo ancora, nel 2019, la frase che pesa: «Ovviamente sapeva delle ragazze, dato che chiese a Ghislaine di smettere». È una riga attribuita a Epstein, non corroborata, eppure sufficiente a riaprire il rubinetto di ogni sospetto. Tre fermo-immagine su una pellicola lunghissima: 2011, 2015, 2019. Prima che l’ex tycoon scenda in politica, durante l’ascesa, nel pieno della presidenza. Un arco temporale che non dimostra, ma suggerisce; non prova, ma insinua; e per questo incendia.

Poi c’è lei, Virginia Giuffre. Nel racconto pubblico è l’ago della bussola e, insieme, la nebbia che la inghiotte. Adolescente a Mar-a-Lago, avvicinata da Ghislaine Maxwell, spinta nel circuito del finanziere. La sua storia, con gli anni, si è fatta materia di tribunali, accordi, testimonianze e rettifiche. In più occasioni non ha accusato Donald Trumpdi condotte improprie; un dato che non chiude il capitolo della «consapevolezza», ma pesa su quello del comportamento personale. Il fatto che il suo nome venga evocato dall’esecutivo per sciogliere l’enigma della «vittima» serve a cucire una narrativa pronta-uso, ma non sostituisce la verifica: finché sulle carte pubblicate resterà inchiostro nero, l’identificazione resterà tesi di parte. E proprio qui si misura il confine tra cronaca e propaganda: nominare non equivale a dimostrare; asserire non è provare.

La memoria corta della capitale — quel tic che riduce tutto a un talk show — stavolta si scontra con un archivio enorme: circa ventitré mila documenti trasferiti dall’Epstein Estate alla Commissione. Tre email sono un antipasto che profuma di cucina elettorale. Il piatto principale, se arriverà, dovrà raccontare molto di più: chi scrive, a chi, quando e perché; quali allegati; quali incroci con registri di voli, ingressi, eventi; quante omissioni per proteggere le vittime e quante, invece, per proteggere reputazioni. Intanto, la Casa Bianca ripete il mantra del «cherry picking», i repubblicani chiedono la disclosure integrale (confidando che il tutto, diluito, pesi meno dei frammenti), i democratici mostrano ciò che hanno e incalzano il DOJ a mollare gli ormeggi. Ogni pubblicazione parziale alimenta sospetti; ogni ritardo li trasforma in certezza emotiva. È il paradosso della trasparenza a rate: più annunci, meno fiducia.

Sul rapporto Trump–Epstein le linee narrative sono due, parallele e litigiose. Da un lato, la foto d’epoca: stessi salotti, stesse piste da ballo, la frase del 2002 in cui Donald Trump definisce Epstein «un tipo fantastico» con «debole per le donne molto giovani». Dall’altro lato, la presa di distanza retrodatata: l’allontanamento da Mar-a-Lago, i quindici anni senza parlare, la rottura ante scandalo. In mezzo, la versione di Ghislaine Maxwell, che sotto giuramento descrive Trump «sempre un gentiluomo» e «mai visto comportarsi in modo inappropriato». Anche qui, nulla che assolva o condanni in via definitiva: una testimone interessata che regge un pezzo del racconto; email non verificate pubblicamente che reggono l’altro pezzo. Due fragilità che si tengono: se una vacilla, non fa automaticamente vera l’altra.

C’è poi il tema più scomodo, quello che scavalca la contabilità delle responsabilità individuali e investe la cultura istituzionale: i casi di abuso di sistema. Il circuito di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell non è un delitto isolato, è una geografia. Denaro, protezioni, silenzi, salotti: il manuale d’istruzioni dell’omertà d’élite. Dentro questo paesaggio, le email diventano un prisma sporco: mostrano la tentazione permanente di piegare porzioni di verità al calendario politico, di usare la memoria digitale come clava, di trasformare il dubbio in una sceneggiatura utile. Eppure la strada è sempre la stessa, ostinata e noiosa: materiali completi, contesto, verifica incrociata. Non basta che le frasi suonino bene: devono stare in piedi da sole, dentro un fascicolo che regga a luce piena.

Il lettore, schiacciato tra tifoserie e dietrologie, ha diritto a un patto semplice. Primo: chiamare email le email, non prove. Secondo: distinguere tra comportamento personale e consapevolezza dell’ecosistema di abusi. Terzo: pretendere che il Department of Justice giochi a carte scoperte su ciò che si può pubblicare senza ferire di nuovo chi è già stato ferito, e che la House Oversight Committee smetta il teatro delle anteprime per passare, finalmente, ai documenti integrali con log, risposte, allegati. Il resto è rumore.

E qui torniamo alla schermata sgranata, alla frase che non abbaia ma rode. In quella riga del 2011 c’è la grammatica di tutto: un nome grande come un palazzo, un riferimento a una «vittima», una replica che non spiega. A distanza di anni, un’altra riga prova a saldare i pezzi: «sapeva delle ragazze». Se c’è una verità, non abita le parole di Jeffrey Epstein — un predatore condannato — né le convenienze di Ghislaine Maxwell; non risiede nelle difese d’ufficio della Casa Bianca né nelle pubblicazioni a spizzichi degli oppositori. Abita, se c’è, nell’incrocio faticoso tra archivi, testimonianze, contraddizioni, piccole esattezze che non cercano titoli ma reggono i processi. Finché il carteggio resterà una collana spezzata in tre perle, la politica litigherà sulle ombre e chiamerà «luce» il favore del momento. Noi no: a costo di sembrare ripetitivi, chiederemo sempre lo stesso, irricevibile lusso democratico — tutto il carteggio, tutto il contesto, tutti i nomi protetti quando serve e visibili quando è giusto. Perché il cane può anche non abbaiare. Ma se nessuno apre la porta, scambiarsi sussurri nel corridoio non fa sicurezza. Fa eco. E l’eco, lo sappiamo, amplifica tutto: verità, menzogna, e soprattutto il vuoto che le separa.

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