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Torino vuole la “stanza del buco”. Ravello (FdI): “È una resa alla droga”

Mozione di Sinistra Ecologista e Civica in Circoscrizione 7 per aprire uno spazio di consumo assistito. L’opposizione insorge: “È pura follia, lo Stato non deve accompagnare la droga ma combatterla”.

Torino vuole la “stanza del buco”. Ravello (FdI): “È una resa alla droga”

Scoppia la polemica a Torino. In Circoscrizione 7, quella che comprende Aurora, Vanchiglia, Vanchiglietta, Madonna del Pilone e Sassi, il gruppo di Sinistra Ecologista e Civica, insieme ad altre forze di coalizione di centrosinistra, ha presentato una mozione per istituire una cosiddetta stanza del buco, uno spazio protetto in cui i tossicodipendenti possano consumare sostanze stupefacenti in modo controllato e sotto assistenza sanitaria.

Nelle intenzioni dei proponenti si tratterebbe di una misura di riduzione del danno, capace di limitare i rischi sanitari, le overdose e il consumo in strada. Ma per l’opposizione, e in particolare per Fratelli d’Italia, è una proposta inaccettabile: una resa morale, politica e civile.

stanza del buco

A lanciare l’allarme è Roberto Ravello, vice capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, che non usa mezzi termini. “È pura follia: Torino è tra le prime città d’Italia per consumo di droga, ma chi amministra la Città e le Circoscrizioni che cosa fa? Finge di non vedere. La sinistra, invece di riconoscere l’allarme, minimizza, nega e addirittura sdogana il problema, trasformando una piaga sociale in un fenomeno da gestire. Il risultato? Nelle strade circola sempre più droga, sempre più facilmente, e invece di combatterla si propone di istituzionalizzarla con la cosiddetta stanza del buco. È semplicemente inaccettabile”, attacca Ravello, denunciando una città ormai anestetizzata davanti al degrado.

Per l’esponente di Fratelli d’Italia, la mozione rappresenta “un atto di resa politica e morale, una legalizzazione di fatto del consumo di sostanze, che cancella ogni idea di prevenzione, recupero e legalità”. “La droga – prosegue Ravello – non può diventare normale, non può essere trattata come un problema amministrativo: è un dramma umano, sociale, educativo, che distrugge vite, famiglie e quartieri. Accettare la droga come elemento ordinario è un messaggio devastante per i giovani, che invece hanno bisogno di esempi, di confini, di regole e di speranza”.

Sul fronte opposto, Sinistra Ecologista e Civica difende la proposta come misura di sanità pubblica e non come scelta ideologica. L’obiettivo, spiegano, è quello di evitare morti per overdose, contenere la diffusione di malattie infettive come HIV ed epatite, e soprattutto ridurre la presenza di tossicodipendenti che si iniettano sostanze nei portoni o nei parchi, lasciando dietro di sé siringhe e degrado. Una “stanza del consumo controllato”, sostengono i promotori, permetterebbe di intervenire con operatori sociali e sanitari, creando un primo contatto per percorsi di cura e riabilitazione.

In Piemonte un modello simile esiste già da alcuni anni a Collegno, nel centro Drop-In Punto Fermo, dove personale qualificato assiste persone con gravi dipendenze. Ma a Torino, finora, nessuno spazio del genere è stato istituito ufficialmente. La mozione della Circoscrizione 7, se approvata, aprirebbe la strada alla prima esperienza cittadina di questo tipo, proprio in quartieri che da tempo convivono con fenomeni di spaccio e marginalità.

Ed è proprio questo a far infuriare l’opposizione, che vede nella proposta un ulteriore segnale di cedimento. “Torino – conclude Ravello – non merita una politica che abdica alla propria responsabilità morale e civile. Servono controlli, repressione, educazione e recupero, non spazi di tolleranza che sanciscono la sconfitta dello Stato. Aprire una stanza del buco significa arrendersi alla droga, noi diciamo no, mille volte no. La droga si combatte, non si accompagna”.

Il dibattito, intanto, si accende. Solo pochi giorni fa un maxi-blitz delle forze dell’ordine ha smantellato un “tossic park” tra Barriera di Milano e Borgo Vittoria, dove tende e baracche venivano utilizzate come rifugi di fortuna per il consumo di droga. Un episodio che, per chi si oppone alla mozione, dimostra quanto sia urgente rafforzare il contrasto e la sicurezza, non aprire spazi di tolleranza.

A livello nazionale, il tema delle stanze del consumo sicuro divide da anni la politica italiana. Alcune città europee, come Zurigo o Amsterdam, ne hanno fatto uno strumento stabile di salute pubblica, con risultati positivi sul piano sanitario e del decoro urbano. Ma in Italia, dove la normativa è ancora incerta, ogni tentativo di aprirne una scatena reazioni durissime. Torino, oggi, si ritrova al centro di questo scontro ideologico: da un lato chi invoca la pragmatica riduzione del danno, dall’altro chi grida alla resa dello Stato.

Una cosa, però, è certa: dietro la formula burocratica della “stanza del buco” si nasconde una città che fatica a trovare risposte. E mentre la politica discute, nelle strade di Aurora e Barriera di Milano la droga continua a scorrere, invisibile ma presente, come una ferita che Torino non riesce più a chiudere.

Le stanze del buco

Le chiamano “stanze del buco”, ma il nome non rende giustizia alla complessità del fenomeno. Nella sostanza, sono luoghi dove chi consuma droga può farlo sotto controllo medico, con strumenti sterili, personale sanitario e, in molti casi, supporto psicologico e sociale. Nascono da un’idea semplice quanto controversa: non si può eliminare la droga dal mondo con una legge, ma si può evitare che uccida. Così, negli ultimi trent’anni, sempre più paesi hanno scelto la strada della riduzione del danno, una politica che affianca la prevenzione e la repressione con la gestione pragmatica del consumo.

Le prime esperienze risalgono alla metà degli anni Ottanta, in Svizzera, dove le autorità di Berna e Zurigo si trovarono di fronte a una crisi drammatica: parchi trasformati in mercati dell’eroina, overdose quotidiane, siringhe ovunque. Da lì nacque l’idea di spostare il consumo in spazi chiusi e controllati, sotto la supervisione di medici e infermieri. I risultati furono sorprendenti: calo delle morti per overdose, diminuzione delle malattie infettive e, soprattutto, un recupero di decoro urbano nelle aree più degradate. Il modello svizzero fece scuola.

Oggi in Europa le cosiddette “stanze del consumo sicuro” sono più di duecento, distribuite in almeno diciassette paesi. In Germania, Olanda, Spagna, Francia e Belgio sono integrate nei servizi pubblici per le dipendenze, finanziate dallo Stato e coordinate con i centri di recupero. A Berlino, ad esempio, il Comune ne gestisce cinque; a Parigi, nel quartiere di Gare du Nord, la struttura inaugurata nel 2016 accoglie ogni giorno centinaia di persone; a Madrid la “Sala Baluarte” è diventata un punto di riferimento per chi cerca di uscire dall’abisso. Non mancano le polemiche, ma le statistiche europee parlano chiaro: dove le stanze del consumo operano in modo stabile, i decessi per overdose calano fino al 40%, le infezioni da HIV si riducono drasticamente e anche la criminalità legata al piccolo spaccio tende a spostarsi o a diminuire.

Fuori dall’Europa, il Canada è stato un pioniere con la struttura Insite di Vancouver, aperta nel 2003 e tuttora modello internazionale: oltre 4 milioni di accessi in vent’anni e nessuna overdose mortale al suo interno. In Australia, il centro supervisionato di Sydney, operativo dal 2001, ha salvato migliaia di vite. Più recentemente, anche Bogotá, in Colombia, ha aperto la prima stanza del consumo del Sud America, segno che l’approccio si sta globalizzando.

Eppure, ovunque vengano introdotte, le stanze del buco restano al centro di accesi dibattiti. I detrattori le considerano un segnale di resa: uno Stato che accetta la droga invece di combatterla. Temono che normalizzino il consumo e trasformino la tossicodipendenza in un problema di gestione sanitaria, non più di prevenzione e recupero. Altri sollevano dubbi legali: in molti paesi l’uso di sostanze resta reato, e creare spazi dove ciò avviene con la tolleranza delle istituzioni non è un passaggio semplice. C’è poi la questione della convivenza: quartieri e residenti spesso si oppongono, temendo degrado, insicurezza e spaccio.

Dall’altra parte, medici, operatori e associazioni rispondono con i numeri. In trent’anni di esperienze internazionali, nessuna ricerca ha mostrato un aumento dei consumi legato all’apertura delle stanze del buco. Al contrario, quasi ovunque si registra un calo delle overdose e un miglioramento delle condizioni igieniche e sociali. Gli utenti, inoltre, entrano più facilmente in contatto con servizi di cura, assistenza sociale e programmi di riabilitazione: un risultato che nessuna repressione pura e semplice è riuscita a ottenere.

Oggi il mondo si divide tra chi considera queste strutture un passo avanti di civiltà e chi le vede come una resa morale. In Europa, però, la tendenza è chiara: il modello della riduzione del danno è entrato a far parte delle politiche pubbliche. Bruxelles, Berlino, Parigi, Madrid, Amsterdam e Ginevra lo applicano da anni, con risultati verificabili e studi scientifici che ne sostengono l’efficacia. In Italia, invece, la discussione resta bloccata tra paure e ideologia.

Le “stanze del buco” non risolvono il problema della droga, ma lo rendono visibile, gestibile, umano. Offrono una possibilità di contatto, di aiuto, di sopravvivenza. E, nel linguaggio spoglio della salute pubblica, questo conta. Meno morti, meno infezioni, più dignità per chi vive ai margini. Forse non è la soluzione perfetta, ma è una risposta reale a un dramma che nessuna campagna moralistica è mai riuscita a cancellare. In fondo, la vera domanda non è se le stanze del buco funzionano: è se la società è pronta ad accettare che combattere la droga non sempre significa chiudere gli occhi davanti a chi la usa.

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