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11 Novembre 2025 - 18:54
foto archivio
Un ordigno è esploso all’ingresso del complesso giudiziario di G-11 durante l’ora di punta, lasciando dietro di sé almeno dodici morti e decine di feriti. Tra rivendicazioni incerte, accuse incrociate e un contesto regionale in fibrillazione, il Pakistan si scopre ancora vulnerabile di fronte a una minaccia che torna a colpire i luoghi della giustizia.
La prima cosa che molti hanno sentito è stato il silenzio, quello che segue un boato quando la realtà si frantuma. Un attimo prima c’erano voci di avvocati in corsa, file agli sportelli, motorini in sosta. Un attimo dopo, il fumo che inghiotte l’ingresso del tribunale di G-11, lamiere contorte, vetri in frantumi, fascicoli e scarpe spaiate sul selciato. L’onda d’urto ha scaraventato a terra passanti e avvocati venuti per le udienze del mezzogiorno. Accanto a una vettura della polizia, i corpi. Lì, all’imbocco del complesso giudiziario, un attentatore suicida si è fatto esplodere nella tarda mattinata di martedì 11 novembre 2025, in una delle ore più affollate della capitale. Secondo i primi dati ufficiali, le vittime sono almeno dodici, i feriti tra 27 e 36, molti in condizioni gravi. Le autorità mediche parlano di passanti e cittadini che si recavano in tribunale per le udienze del giorno, colti nel momento più ordinario della vita.

Secondo la ricostruzione fornita dal ministro dell’Interno Mohsin Naqvi, l’attentatore avrebbe tentato di varcare a piedi i controlli del tribunale. Fermato all’ingresso, avrebbe atteso dai dieci ai quindici minuti prima di azionare il dispositivo nei pressi di un veicolo della polizia, davanti al portone principale. La deflagrazione ha investito chi stava entrando o uscendo dal complesso. I video diffusi dai media locali mostrano fiamme alte, un’auto carbonizzata, cartelline sparse, una toga impolverata, telefoni che squillano senza risposta. In un primo momento si era parlato di un’autobomba, ma le verifiche hanno confermato la natura suicida dell’attacco: l’attentatore non è riuscito a superare i varchi di sicurezza e ha deciso di farsi esplodere sul posto.
Il bilancio, come spesso accade, è cambiato di ora in ora. Le prime agenzie parlavano di otto feriti, poi il numero è salito a ventuno, quindi a trentasei. Il Pakistan Institute of Medical Sciences (PIMS), dove sono stati trasportati la maggior parte dei feriti, ha comunicato nel pomeriggio che diciotto persone erano state dimesse dopo le prime cure, mentre quattro rimanevano in condizioni critiche. Dodici i morti, compreso l’attentatore.
La paternità dell’attacco resta incerta. Alcune fonti internazionali attribuiscono la responsabilità al Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), i Talebani pakistani, già autori di una lunga serie di attacchi nel Paese. Altre ipotesi puntano su Jamaat-ul-Ahrar, fazione scissionista del TTP, che avrebbe rivendicato in modo informale l’esplosione per poi smentire. Dal governo filtrano anche accuse di “mandanti stranieri”, ma senza prove rese pubbliche. Un intrico di versioni che riflette il clima di confusione e paura, mentre resta chiaro l’obiettivo: colpire un simbolo dello Stato, un luogo dove la legge si manifesta nella sua forma più visibile.
I tribunali sono bersagli frequenti in Pakistan: luoghi di passaggio, accessi filtrati ma non impenetrabili, simboli della legalità e del potere civile. Colpire lì, nel cuore amministrativo della capitale, a pochi chilometri dai ministeri e dalle ambasciate, significa lanciare un messaggio: nessuno è al sicuro, nemmeno dove si amministra la giustizia. La scelta del momento non è casuale. A Islamabad si tenevano eventi di alto profilo, come la Inter-Parliamentary Speakers’ Conference e il Margalla Dialogue, mentre a Rawalpindi era in programma un match della nazionale di cricket. La città era già sotto stretta sorveglianza, e proprio per questo l’attacco assume un valore simbolico: dimostrare che, nonostante l’allerta, esistono varchi, esitazioni, momenti di distrazione.
Il primo ministro Shehbaz Sharif ha condannato l’attacco definendolo un gesto “vigliacco”, promettendo che i responsabili saranno assicurati alla giustizia. Naqvi, dal luogo della strage, ha parlato di un’indagine “a 360 gradi”, sottolineando che “non è un attacco qualunque, è accaduto nel cuore di Islamabad”. L’ambasciata degli Stati Uniti ha espresso solidarietà al Pakistan nella lotta al terrorismo, mentre le associazioni forensi hanno chiesto più fondi e protocolli di sicurezza per i palazzi di giustizia.
I primi soccorsi sono arrivati dai volontari e dagli autisti dei rickshaw, che hanno trasportato i feriti più lievi ai pronto soccorso di quartiere. Poi le ambulanze, la corsa al PIMS, le sale operatorie in codice rosso. I medici parlano di ferite da esplosione ad alto potenziale: ustioni, politraumi, schegge metalliche. In diversi casi, la rapidità dei soccorsi ha fatto la differenza tra la vita e la morte.

L’attacco arriva in un momento di forte instabilità per la sicurezza interna del Pakistan. Dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani afghani nel 2021, il TTP ha mostrato una capacità di rigenerazione e adattamento che preoccupa Islamabad, soprattutto nelle regioni di confine del Khyber Pakhtunkhwa. La frontiera afghana è tornata terreno di tensione e accuse reciproche: il governo pakistano accusa Kabul di offrire rifugio ai miliziani, i Talebani rispondono denunciando sconfinamenti. Nelle ultime settimane, si sono verificati scontri di frontiera, mediati senza esito da Qatar e Turchia. È in questo clima che un attentato nella capitale assume il peso di un segnale politico.
L’esplosione davanti al tribunale di G-11 segue una strategia ben nota: un attentatore a piedi, una carica nascosta, un obiettivo civile a forte valore simbolico. È la grammatica del terrore che unisce impatto immediato e alta visibilità, colpendo il punto debole della quotidianità: l’abitudine. Gli investigatori cercano ora di capire chi abbia sostenuto l’attentatore, se ci siano stati sopralluoghi o complicità logistiche, e se l’ordigno contenesse un secondo innesco.
Nel frattempo, Islamabad è una città blindata. Check-point, droni di sorveglianza, strade chiuse tra la capitale e Rawalpindi. Le scuole limitano le uscite, i complessi giudiziari di altre province sono stati messi in allerta. È la tensione tipica che segue ogni attentato: un equilibrio fragile tra la necessità di sicurezza e il diritto alla normalità.
Dietro le cifre, ci sono volti. Un giovane praticante legale che stava depositando la sua prima memoria difensiva. Una madre che accompagnava il figlio per un certificato. Un venditore ambulante con il vassoio di samosa. Le autorità non hanno ancora diffuso i nomi delle vittime, ma gli ospedali parlano di civili comuni: la folla anonima che ogni giorno abita i luoghi della giustizia. Ed è proprio lì che l’attacco colpisce più a fondo, perché non distrugge solo un edificio, ma l’idea stessa di sicurezza e di diritto.
Sui social, la deflagrazione è diventata virale nel giro di minuti. Su X e Telegram circolano video, immagini, ipotesi contraddittorie. C’è chi accusa il TTP, chi invoca la pista estera, chi nega tutto. La disinformazione corre più veloce dei soccorsi, alimentando la confusione e l’angoscia.
Nelle prossime ore gli esperti di sicurezza parleranno di barriere, protocolli, database, esercitazioni. Ma dietro i numeri, dietro i crateri e i tabulati, resta l’immagine che più di tutte racconta la tragedia: scarpe abbandonate e fascicoli volati via. È il segno di un Paese che, ancora una volta, si interroga su come difendere la giustizia senza smarrire la libertà che quella giustizia intende proteggere.
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