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10 Novembre 2025 - 23:26
Trump riceve l’ex jihadista al-Sharaa alla Casa Bianca: la nuova Siria entra dalla porta principale
Una porta si chiude piano dietro le spalle di Ahmed al-Sharaa. Nell’Ufficio Ovale, sotto i faretti che impastano il legno del Resolute Desk, il presidente siriano stringe la mano a Donald Trump. Fuori, i vialetti del 1600 Pennsylvania Avenue sono pattugliati come nelle giornate in cui la storia decide di passare di lì. Dentro, il cortocircuito diventa protocollo: per la prima volta dal 1946 un capo di Stato siriano viene ricevuto a Washington, e per la prima volta un ex esponente legato ad al-Qaida entra alla Casa Bianca non come nemico, ma come ospite ufficiale. È un’immagine che smentisce gli automatismi della politica internazionale e costringe a ricalibrare bussole e lessici. Eppure è accaduto, e non per caso.
La visita di al-Sharaa negli Stati Uniti il 10 novembre 2025 è un evento senza precedenti, un messaggio multiplo lanciato in tre direzioni diverse ma convergenti. Alla comunità internazionale, l’ONU ha appena rimosso le sanzioni personali contro il leader siriano su impulso statunitense, decretando la fine di una stagione punitiva nata per colpire l’ecosistema jihadista e la repressione del precedente regime. È un gesto politico prima ancora che giuridico, che ridefinisce il perimetro della legittimità. Agli alleati e ai critici di Washington, l’amministrazione Trump mostra di voler investire nel nuovo corso di Damasco, puntando a reinserire la Siria in un’architettura di sicurezza regionale capace di contenere lo Stato islamico e le sue residualità, senza rinunciare alle leve economiche e diplomatiche. Al Medio Oriente, infine, il segnale è che la normalizzazione con Damasco si inserisce in un nuovo ordine sunnita centrato sull’Arabia Saudita, per ridurre la proiezione iraniana e contenere le incognite di Turchia e Israele. In controluce, la domanda che serpeggia nei corridoi diplomatici è una sola: quanta “nuova Siria” c’è davvero nella Siria di al-Sharaa?
Fino a pochi anni fa, il suo nome evocava la sigla Jabhat al-Nusra e, poi, la sua evoluzione Hayat Tahrir al-Sham (HTS), formazione nata da una scissione da al-Qaida e a lungo nel mirino delle sanzioni antiterrorismo occidentali. La sua ascesa politica coincide con il crollo del regime di Bashar al-Assad a fine 2024, quando la dinamica militare e diplomatica si è rovesciata con una rapidità inattesa. Dal gennaio 2025, l’ex comandante si è presentato come presidente di transizione, impegnato a disinnescare gli automatismi del passato: riapertura dei canali con le agenzie ONU, dialogo con le capitali arabe e occidentali, ristrutturazione delle forze di sicurezza. A giugno, la Casa Bianca ha annunciato una revoca parziale delle sanzioni esecutive e nuove licenze OFAC per consentire transazioni economiche non riconducibili a entità terroristiche o a responsabili di crimini di guerra. Il Caesar Act, ossatura del regime sanzionatorio statunitense, resta formalmente in vigore e la sua abrogazione richiederà il passaggio al Congresso. Il dibattito, acceso e trasversale, oscilla tra chi invoca la cancellazione pura e chi propone revisioni periodiche condizionate a progressi su diritti umani, smobilitazione armata e cooperazione giudiziaria.

La svolta è arrivata il 6 novembre 2025, quando il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato con 14 voti favorevoli e un’astensione una risoluzione che cancella le misure restrittive individuali contro al-Sharaa e il ministro dell’Interno Anas Khattab. Secondo il testo, HTS non mantiene più legami attivi con al-Qaida, e il nuovo esecutivo siriano ha avviato collaborazioni con partner internazionali su antiterrorismo, detenuti, scomparsi e disarmo chimico. È la base che ha consentito l’invito alla Casa Bianca, frutto di una convergenza insolita tra realpolitik americana e pragmatismo arabo.
Dietro l’abbraccio calibrato di Washington c’è un’agenda a tre livelli: sicurezza, economia e politica regionale. Sul fronte militare, gli Stati Uniti vogliono incardinare la Siria in una coalizione anti-IS più ampia, in grado di colpire le cellule riemergenti nel deserto e lungo le frontiere irachene. A Damasco spetta dimostrare di avere controllo e catena di comando credibili prima di un’integrazione operativa vera e propria. Sul piano economico, la leva sanzionatoria viene trasformata in incentivo condizionale: aperture a investimenti e aiuti solo in presenza di progressi misurabili su diritti civili, ritorno dei rifugiati, lotta al traffico di captagon e riforme istituzionali. Il Caesar Act resta la clava ultima, ma i waiver temporanei consentono margini d’azione diplomatica. Politicamente, la Casa Bianca punta a incastonare la Siria nel riavvicinamento arabo e nella gestione dei dossier più delicati – Israele e Turchia – ritagliandosi il ruolo di mediatore e garante.
Per al-Sharaa, la stretta di mano nello Studio Ovale è la legittimazione globale che cercava. Ma dietro l’immagine c’è una trattativa sostanziale: accordi di sicurezza, memorandum di adesione alla coalizione anti-IS e colloqui su sanzioni, assistenza finanziaria e investimenti. Il governo siriano mira a catalizzare fondi multilaterali e bilaterali per una ricostruzione che le stime più prudenti valutano in oltre 200 miliardi di dollari. Il piano passa da settori “protetti” – energia, acqua, sanità, scuola – e da impegni verificabili su trasparenza e anticorruzione. La rinascita simbolica è già cominciata con la riapertura della Fiera internazionale di Damasco nell’agosto 2025, ma l’attrazione di capitali reali dipenderà dalla rimozione dei rischi legali e dalla credibilità del nuovo Stato.
Il nodo etico resta però la traiettoria personale del presidente. Da militante jihadista a capo di Stato accolto nelle cancellerie mondiali: un salto che divide osservatori e governi. Alcuni sostengono che la rottura con al-Qaida nel 2016 e l’evoluzione di HTS abbiano permesso un approdo a un nazionalismo religioso non transnazionale; altri parlano di un maquillage politico che non cancella le responsabilità del passato. Per Washington, la scommessa è che il “nuovo Damasco” rappresenti oggi il male minore, un alleato funzionale contro i rischi più immediati: la rinascita di IS, il traffico di droga, l’instabilità delle frontiere. La rimozione dalle liste terroristiche non è dunque un’assoluzione, ma una catena di condizionalità: accesso a finanza e mercati in cambio di riforme verificabili.
Sul versante regionale, la normalizzazione con Damasco ridisegna il triangolo delle diffidenze. Israele osserva con cautela: per Gerusalemme la nuova Siria resta un’incognita, e la libertà di manovra dell’Aeronautica israeliana contro obiettivi percepiti come minacce è un punto su cui Washington spinge per coordinamenti e regole condivise. Con la Turchia si apre un dossier di compromessi faticosi: Ankara rivendica sicurezza al nord e influenza sulle aree di confine, e l’ipotesi di un graduale disimpegno turco richiede garanzie su curdi, profughi e controllo transfrontaliero. L’Iran, infine, resta il convitato di pietra. L’asse sunnita guidato da Riad mira a sterilizzare la presenza iraniana, non a cancellarla: il risultato sarà probabilmente un ridimensionamento tattico, più che un’uscita di scena.
Tutto questo avviene mentre a Capitol Hill si prepara la battaglia legislativa. Il destino del Caesar Act è la prova di forza tra due visioni: chi ritiene la diplomazia audace ma necessaria, e chi teme che la fretta di legittimare al-Sharaa apra falle morali e giuridiche. La dichiarazione congiunta del 6 novembre dei vertici della Commissione Esteri del Senato sintetizza lo spirito del momento: diplomazia audace, ma con contabilità politica. Intanto, la Casa Bianca allunga waiver di 180 giorni e guadagna tempo, sperando di dimostrare che la scommessa produce dividendi di stabilità.
Ma la normalizzazione non può eludere la dimensione umana e giudiziaria di tredici anni di guerra. Il ritorno di milioni di rifugiati, la liberazione dei detenuti politici, la ricerca degli scomparsi e la trasparenza nella ricostruzione sono le vere cartine di tornasole della “nuova Siria”. I donatori internazionali chiedono garanzie legali, servizi minimi, documentazione e monitoraggio. Damasco, da parte sua, cerca di mostrare segnali concreti: qualche apertura sul disarmo chimico, qualche gesto simbolico sulle persone scomparse, ma la strada verso un’autentica riconciliazione resta lunga.
L’Europa si muove con prudenza, oscillando tra cautela e allineamento di fatto all’asse Washington-Riyadh. Alcune capitali hanno già riattivato canali umanitari e di sicurezza, altre attendono segnali più solidi. La rimozione delle sanzioni ONU offre copertura politica per riconsiderare misure nazionali, ma le memorie di Aleppo, Ghouta e Idlib pesano ancora come macigni. Londra ha già alleggerito parte dei propri regimi punitivi, mentre Bruxelles studia un approccio graduale, vincolato a verifiche periodiche. Nessuna automatica convergenza, ma un lento riavvicinamento.
L’incontro di Washington, insomma, è il fotogramma inaugurale di un paradosso necessario. Accettare al-Sharaa come interlocutore significa ammettere che la Siria post-Assad è un laboratorio imperfetto in cui la sicurezza si compra al prezzo di compromessi calibrati. È la logica del give and verify: concedere qualcosa per poter controllare meglio. La scommessa americana – sostenuta dagli arabi e accettata con mille cautele dagli europei – è che il costo di non impegnarsi sarebbe maggiore: un Paese a pezzi, un mercato nero della violenza, una geografia del risentimento pronta a rianimare lo Stato islamico e i suoi epigoni. Non è un assegno in bianco, ma un contratto a tempo, scandito da date, condizionalità e verifiche: la risoluzione ONU del 6 novembre 2025, i waiver semestrali, i benchmark su diritti e governance, la prova su detenuti, scomparsi e armi proibite. Se la catena reggerà, la foto di oggi potrà diventare il primo fotogramma di un nuovo equilibrio. Se si spezzerà, resterà come promemoria di quanto sottile sia il confine tra realpolitik e rimozione. Intanto, la porta dell’Ufficio Ovale si riapre. Il protocollo chiama, le telecamere aspettano. La storia – quando decide di passare – non ama perdere tempo.
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