AGGIORNAMENTI
Cerca
Esteri
10 Novembre 2025 - 11:29
Salta la pace tra Thailandia e Cambogia: una mina fa esplodere l’accordo di Kuala Lumpur
Un gesto di rottura che gela la fragile distensione: due soldati feriti alla frontiera, Bangkok blocca la Dichiarazione congiunta mediata anche dagli Stati Uniti e rinvia il rilascio di diciotto militari cambogiani. Dietro lo strappo, un intreccio di mine, confini contesi e pressioni regionali.
La scena che rimette tutto in discussione è cruda e silenziosa: una pattuglia che avanza tra la vegetazione fitta della provincia di Si Sa Ket, un tonfo sordo, poi il vuoto dove prima c’era un piede. In pochi secondi la promessa di pace firmata a Kuala Lumpur il 26 ottobre 2025 si incrina. Un sergente thailandese perde l’arto destro, un secondo militare accusa dolori al petto per l’onda d’urto. A Bangkok, il premier Anutin Charnvirakul ordina di sospendere l’attuazione della Dichiarazione congiunta thailandese-cambogiana, frutto di una mediazione regionale con la spinta diretta della Casa Bianca. E annuncia che ogni misura prevista, inclusa la liberazione dei diciotto soldati cambogiani detenuti, è sospesa “fino a nuova chiarezza”.
L’accordo congelato è la Joint Declaration on Peace, Cooperation and Prosperity, una road map in tre fasi che avrebbe dovuto avviare il ritiro scaglionato delle armi pesanti dalla frontiera, la bonifica umanitaria delle aree minate e la creazione di meccanismi di verifica e monitoraggio con un ASEAN Observer Team. Tutto era legato a una normalizzazione graduale dei passaggi di frontiera e al rilascio dei prigionieri di guerra cambogiani. Firmatari: il premier thailandese Anutin Charnvirakul e quello cambogiano Hun Manet, alla presenza del premier malese Anwar Ibrahim e con l’impulso del presidente statunitense Donald Trump durante il vertice ASEAN.

La tabella di marcia prevedeva un calendario preciso: dal primo novembre al 31 dicembre 2025 sarebbero stati ritirati prima i lanciarazzi e i sistemi a lunga gittata, poi l’artiglieria, infine carri armati e veicoli blindati. In parallelo, squadre di sminamento avrebbero operato in tredici zone sul lato thailandese e in un settore su quello cambogiano, sotto il controllo incrociato dell’AOT e delle rispettive commissioni di confine.
Ma il 10 novembre 2025, durante un pattugliamento in un’area ad alto rischio, una mina esplode. Bastano pochi istanti per riportare la tensione a livelli di emergenza. Il premier Anutin parla di “ostilità non cessata” e invoca la necessità di “tutelare la sovranità nazionale”, ordinando a Difesa ed Esteri di adottare la massima cautela. Il ministero della Difesa precisa che è in corso un’indagine per accertare se la mina fosse un residuato bellico o di recente posa. Nel frattempo, il rilascio dei diciotto militari cambogiani, previsto per la settimana successiva, viene rinviato a data da destinarsi.
La sospensione riguarda ogni attività connessa alla Dichiarazione: non solo il dossier dei prigionieri, ma anche i protocolli di bonifica e i passi operativi sul ritiro delle armi. Già a fine ottobre, Anutin aveva frenato su una riapertura rapida dei valichi, vincolandola al rispetto di precise condizioni. Nessuna normalizzazione, aveva detto, senza prove concrete di “buona fede” sul terreno.
Il punto più sensibile resta quello delle mine. Le forze armate thailandesi accusano la Cambogia di aver piazzato nuovi ordigni in violazione del cessate il fuoco. Da Phnom Penh arriva una replica secca: il ministero degli Esteri ribadisce che la Cambogia “sta attuando in buona fede l’accordo di Kuala Lumpur e resta pronta a cooperare per trasformare il confine in una zona di pace e cooperazione”. L’ambiguità tecnica però è reale. Le zone contigue al complesso di Preah Vihear restano disseminate di ordigni risalenti ai conflitti degli anni Ottanta e Novanta. Determinare con certezza l’età di un ordigno richiede tempo, competenze e accesso congiunto al sito. Condizioni difficili da garantire in un clima di reciproca diffidenza. La creazione di squadre miste di sminatori con audit indipendenti e geolocalizzazione delle operazioni era, non a caso, uno dei pilastri dell’intesa.
La firma di Kuala Lumpur era stata possibile grazie a un incrocio di interessi e pressioni: l’attivismo diplomatico della Malesia, la necessità condivisa di congelare una crisi che a luglio aveva causato decine di morti e la volontà degli Stati Uniti di ottenere un risultato tangibile nel Sud-Est asiatico. Durante il vertice ASEAN, Donald Trump aveva legato la sua presenza a un impegno concreto tra le due parti, ventilando persino la revisione di benefici commerciali in caso di stallo.
Il coinvolgimento americano non si è limitato alle parole. Il 6 novembre 2025 Washington ha annunciato la revoca dell’embargo sulle forniture militari alla Cambogia, in vigore dal 2021, motivandola con i “progressi nella cooperazione difensiva” e con l’impegno a contrastare il crimine transnazionale. Una decisione accolta con perplessità da vari osservatori, vista la persistente influenza cinese sulla base navale di Ream e i dubbi sul rispetto dei diritti umani.
Il confine tra Thailandia e Cambogia è da sempre un terreno minato, in tutti i sensi. La fascia montuosa attorno a Preah Vihear è un simbolo di contese storiche e di una demarcazione mai del tutto risolta. La porosità della linea di frontiera alimenta contrabbando, traffici e migrazioni irregolari, con tensioni periodiche e incidenti che rischiano di accendere di nuovo la miccia. Ogni mina, ogni pattugliamento, ogni scambio di accuse può diventare detonatore politico.
Sul terreno, le conseguenze della sospensione sono immediate. Il comando thailandese blocca il ritiro di artiglieria e corazzati, in attesa di chiarimenti. Le squadre di sminamento riducono il raggio d’azione, mentre i diciotto militari cambogiani restano detenuti come pedine in una partita più ampia. I valichi restano chiusi e la promessa di riaprirli, anche solo per scopi commerciali, appare lontana.
Da Phnom Penh, la reazione ufficiale punta alla calma. Il governo ribadisce l’impegno a rispettare l’accordo di Kuala Lumpur e ringrazia apertamente Malesia, Stati Uniti, Cina e gli “amici e partner” che hanno favorito la tregua. È un messaggio che va oltre la diplomazia di facciata: la Cambogia vuole mostrare continuità, consapevole che la posta in gioco è anche la sua credibilità internazionale.
I prossimi giorni saranno decisivi. Le autorità thailandesi devono stabilire se l’ordigno esploso sia un residuo del passato o una nuova mina piazzata da mani recenti. Nel primo caso, Bangkok avrebbe un margine per riprendere l’accordo salvando la faccia; nel secondo, il processo di pace rischierebbe di arenarsi, con nuove truppe schierate lungo la linea contesa. In gioco c’è anche la credibilità dei meccanismi di verifica: mappe condivise, accessi ai siti di sminamento, georeferenziazioni e controlli dell’ASEAN Observer Team. Senza trasparenza, la Joint Declaration rischia di diventare solo carta diplomatica.
Sul fronte internazionale, gli Stati Uniti restano il principale attore esterno interessato a un esito positivo. In un’area segnata dalla competizione con la Cina, Washington ha tutto l’interesse a evitare un nuovo conflitto regionale. È possibile che nei prossimi mesi arrivi un’offerta di assistenza tecnica per la bonifica o di aiuti economici mirati alle comunità di confine, come incentivo alla cooperazione.
Nel frattempo, le popolazioni di frontiera pagano il prezzo più alto. I flussi commerciali si riducono, i mercati rallentano, i contadini evitano i campi più vicini alla linea di demarcazione. L’incertezza alimenta paura e povertà. Le ONG locali avvertono che senza una ripresa coordinata delle attività di sminamento il rischio di nuovi incidenti resta elevato. E ogni mina inesplosa è una ferita che può riaprirsi in qualunque momento.
Per riportare il dossier sui binari della diplomazia servirà un equilibrio delicato: una dichiarazione congiunta che separi il piano tecnico da quello politico, un calendario verificato per il rilascio graduale dei detenuti e un ruolo più incisivo della Malesia come garante. L’ASEAN dovrà assumersi la responsabilità di custode delle prove e delle verifiche sul campo, mentre partner terzi potrebbero essere coinvolti nei programmi di formazione congiunta degli sminatori e nelle operazioni di soccorso.
La crisi ha anche un riflesso interno per entrambi i leader. Per Anutin Charnvirakul, mostrarsi fermo sulla sicurezza nazionale è essenziale per arginare le critiche delle opposizioni e rassicurare un’opinione pubblica scossa dagli scontri di luglio. Per Hun Manet, che ha investito capitale politico nel riavvicinamento a Bangkok, la priorità è non apparire debole e allo stesso tempo evitare l’isolamento diplomatico. Da qui la scelta di insistere sulla legalità internazionale e sugli impegni di Kuala Lumpur.
La decisione di Bangkok congela, ma non cancella, la Dichiarazione di Kuala Lumpur. Il confine resta fragile e punteggiato di mine, ma l’architettura dell’intesa — ritiro progressivo delle armi, verifica indipendente, bonifica umanitaria e rilascio dei prigionieri — rimane la via più realistica per evitare che un altro “clic” nel sottobosco faccia ripartire la spirale di violenza. In fondo, la pace, da queste parti, si costruisce su millimetri. Non su proclami.
Edicola digitale
I più letti
Ultimi Video
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.