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09 Novembre 2025 - 18:22
foto archivio
Una tavola di legno, una ciabatta strappata, un giubbotto salvagente improvvisato con taniche vuote: all’alba del 9 novembre 2025 i pescatori di Langkawi li hanno visti galleggiare tra le onde come tracce mute di una rotta che non avrebbe dovuto esistere. Poco più in là, il mare restituiva i corpi. Le correnti venivano da nord, dalla direzione di Pulau Tarutao, isola thailandese a un soffio dal confine marittimo con la Malesia. Lì, secondo le prime ricostruzioni, una delle tre imbarcazioni su cui erano stati caricati fino a 300 migranti – in maggioranza Rohingya e altri cittadini del Myanmar – si è capovolta nella notte. Altre due barche sarebbero riuscite ad allontanarsi, destino ignoto. Finora le autorità malesi hanno contato almeno sette vittime e tredici sopravvissuti, ma la ricerca è appena iniziata e il bilancio potrebbe cambiare.

Secondo la Malaysian Maritime Enforcement Agency (MMEA), il punto di riferimento è il tratto di mare fra Tarutao e le acque di Langkawi, nella regione settentrionale di Kedah e Perlis. Le operazioni di ricerca e soccorso sono state attivate nella mattina del 9 novembre, dopo il ritrovamento di corpi e superstiti trascinati a sud dalle correnti. L’area pattugliata è stata estesa a circa 170 miglia nautiche quadrate, un quadrilatero d’acqua ampio e insidioso. A coordinare i soccorsi è il Langkawi Maritime Rescue Sub Centre (MRSC), con squadre miste di guardia costiera, polizia marittima e pescherecci locali che, spesso prima ancora delle autorità, hanno avvistato i naufraghi. “Abbiamo visto galleggiare una donna, sembrava dormisse”, ha raccontato un pescatore, ancora incredulo. In mare, anche il silenzio pesa.
Nelle parole del contrammiraglio Romli Mustafa, direttore regionale della MMEA, i naufraghi sarebbero partiti tre giorni prima da Buthidaung, nello Stato di Rakhine (Myanmar), imbarcati inizialmente su una nave madre e poi redistribuiti su tre barche più piccole per eludere i controlli. Una di queste si è ribaltata in prossimità della costa thailandese, travolta da onde che hanno cancellato ogni speranza. Le prime ore hanno restituito numeri parziali e identità frammentarie: tra i superstiti ci sono almeno tre cittadini birmani, due Rohingya e un bengalese; tra i corpi, anche quello di una giovane ragazza. La MMEA ha sospeso le ricerche in serata per ragioni di sicurezza, annunciandone la ripresa all’alba. Ogni ora è decisiva: in queste acque la sopravvivenza a galla, senza dotazioni adeguate, si misura in pochi minuti.
Il corridoio marittimo tra Tarutao e Langkawi è ormai uno dei tratti più pericolosi e battuti dai trafficanti. Da qui passano contrabbando, reti di tratta e disperati che inseguono un miraggio: la Malesia come terra di approdo, lavoro e accoglienza per i Rohingya, minoranza perseguitata in Myanmar e da anni dimenticata nei campi profughi del Bangladesh. L’uso di una “nave madre” che scarica i passeggeri su unità minori è un espediente collaudato: disperde i gruppi, complica gli interventi, riduce la probabilità di intercettazione e moltiplica i rischi. Nelle stesse acque, all’inizio del 2025, la MMEA aveva già individuato due barche con “quasi 300” cittadini del Myanmar, fornendo acqua e cibo e poi scortandole fuori dalla zona di competenza. Segnali di un’ondata migratoria che non si ferma, sospesa tra il soccorso e il respingimento.
Dietro i numeri, ci sono storie che raramente arrivano a riva. Dai racconti dei sopravvissuti emergono frammenti di un’identità collettiva: famiglie Rohingya in fuga da Rakhine, giovani birmani braccati dalla guerra civile, madri e bambini che hanno attraversato il confine dal Bangladesh dopo anni di vita nei campi di Cox’s Bazar. La UNHCRsegnala un’impennata delle partenze via mare: nel solo 2025, fino a inizio novembre, oltre 5.100 persone si sono imbarcate su zattere di fortuna, con quasi 600 tra morti e dispersi. Nel 2024 i tentativi erano stati più di 7.800, l’80% in più rispetto all’anno precedente, e i deceduti o dispersi almeno 656, il dato più alto dal 2014. Partono famiglie intere, e il 44% dei passeggeri sono minori. Una rotta dove la statistica coincide con la condanna.
La MMEA dispone di motovedette, elicotteri, radar costieri e un coordinamento con la Royal Malaysian Police e il Dipartimento della Pesca; dal lato thailandese interviene la Royal Thai Navy. Ma la vastità dell’area – 170 miglia nautiche quadrate – e la frammentazione delle unità cambiano le regole del gioco: basta un errore di rotta, una chiamata in ritardo o un’onda di prua per trasformare un salvataggio in recupero. In queste ore sono stati soprattutto i pescatori locali a segnalare uomini e donne alla deriva, confermando ancora una volta il ruolo decisivo delle comunità costiere nei primi minuti dell’emergenza.
Le autorità hanno comunicato che tra i recuperati vivi figurano persone allo stremo, disidratate, con ipotermia e escoriazioni. Una parte dei superstiti è stata trasferita a Langkawi per le cure e per l’identificazione. Resta il nodo più spinoso: la gestione amministrativa. In Malesia, il riconoscimento come rifugiati dipende dalla registrazione presso la UNHCR, ma le autorità continuano a perseguire i trafficanti e a contrastare l’immigrazione irregolare. Negli ultimi anni si sono alternati accoglienza temporanea, detenzione amministrativa e respingimenti. A gennaio due barche con circa 300 persone erano state “accompagnate” fuori dalle acque malesi. Il diritto del mare è chiaro: chi è in pericolo va soccorso. Ma nella pratica, la linea tra assistenza e respingimento resta sottile, e il confine del dovere umanitario si perde tra competenze e indifferenza.
La UNHCR chiede da mesi un approccio coordinato tra i Paesi del Sud-Est asiatico, ricordando che “salvare vite è una priorità assoluta” e che, senza vie legali e protezioni effettive nei Paesi di primo asilo, le partenze continueranno a crescere. Human Rights Watch documenta invece l’evoluzione delle reti di tratta: sequestri, violenze nei magazzini di transito, riscatti estorti alle famiglie, barche sovraccariche per ridurre i costi e aumentare i profitti criminali. Il Mare delle Andamane e il Golfo del Bengala sono ormai sinonimi di rischio estremo: i monsoni scandiscono finestre di navigazione sempre più imprevedibili, aggravate dal cambiamento climatico che amplifica vento e onde. Molti scafi sono barche da pesca riadattate, senza strumenti di navigazione, riserve d’acqua o radio affidabili. Un guasto al motore, una perdita, una tavola che si spacca, e la barca si trasforma in una trappola.
Ogni naufragio è un fatto e una storia. Le cronache parlano di una ragazza tra le vittime, di uomini trovati mentre annaspavano vicino a Kuala Muda Teriang, di donne trascinate dalle onde. Ma dietro quei corpi c’è il cammino di chi, partito da Rakhine o dai campi di Cox’s Bazar, ha attraversato posti di blocco, pagato riscatti, subìto violenze. Le rotte cambiano, la logica resta identica: promettere un approdo sicuro e consegnare esseri umani all’azzardo del mare aperto.
Il naufragio tra Tarutao e Langkawi non è un evento isolato, ma l’ennesimo tassello di una crisi che si ripete. Il Myanmar sprofonda nel caos, i campi in Bangladesh sono saturi, le risorse umanitarie si assottigliano. La UNHCR ha chiesto per il 2025 oltre 383 milioni di dollari per i rifugiati Rohingya, ma a metà anno la copertura era ancora drammaticamente insufficiente. Finché questi fattori non verranno affrontati, le partenze continueranno. E con esse i naufragi.
Un pescatore di Langkawi mostra alla telecamera un giubbotto ricavato da bottiglie legate con lo spago. “Non tiene a lungo, ma galleggia”, dice. In assenza di certezze – numeri, rotte, confini – resta solo questo galleggiare precario, metafora di un intero sistema che si regge su soluzioni provvisorie. Non basterà ai naufraghi di Tarutao. E non basterà ai prossimi.
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