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06 Novembre 2025 - 21:00
Belgrado si spacca: la madre digiuna, il presidente sorride
Nel buio lucido del selciato, le sirene disegnano cerchi irregolari sui riflessi dell’asfalto. Da un lato, gli altoparlanti gracchiano inni patriottici; dall’altro, un cartello scritto a mano recita: “Sedici minuti per sedici vite”. In mezzo, una madre, seduta su una sedia pieghevole. Si chiama Dijana Hrka, ha iniziato uno sciopero della fame alle 11:52 — l’ora esatta del crollo — e stringe tra le dita la foto del figlio. Attorno, la cintura di polizia separa due maree che si osservano senza parlarsi, solo con sguardi duri. È il 5 novembre 2025, a Belgrado, davanti al Parlamento: migliaia di manifestanti antigovernativi e migliaia di sostenitori del presidente Aleksandar Vučić occupano lo stesso spazio, con parole diverse, ricordi diversi, ma lo stesso Paese spaccato.
Un anno e quattro giorni prima, il 1° novembre 2024, la pensilina in cemento della stazione di Novi Sad crolla all’improvviso. Blocchi di calcestruzzo si staccano e precipitano sui passanti: sedici morti, un ferito grave che lotterà mesi per la vita. La Procura apre un’inchiesta; il lutto diventa rabbia, poi domanda di giustizia. Le veglie si trasformano in cortei, gli studenti dettano il ritmo della protesta: ogni giorno, dalle 11:52 alle 12:08, la Serbia si ferma in silenzio. E quel silenzio, oggi, arriva fin davanti ai gradini dell’Assemblea nazionale.
Secondo gli inquirenti, la stazione — costruita nel 1964 e rinnovata di recente — era ancora oggetto di lavori quando il tettuccio ha ceduto. La Procura superiore di Novi Sad ha formalizzato un’accusa contro tredici persone, tra cui l’ex ministro delle Infrastrutture Goran Vesić, per gravi violazioni della sicurezza pubblica. L’atto d’accusa, presentato il 16 settembre 2025, parla di utilizzo dell’edificio senza autorizzazioni e di manutenzione carente. Il documento è ora in attesa di giudizio.
Nella sera del 5 novembre, Belgrado è divisa in due raduni speculari. Da un lato, gli anticorruzione: studenti, docenti, famiglie, organizzazioni civiche, molti con le mani dipinte di rosso — simbolo d’accusa contro la corruzione dei grandi appalti. Dall’altro, i sostenitori del governo, arrivati con pullman organizzati dal Partito Progressista Serbo (SNS) per dimostrare fedeltà al presidente e difendere la “stabilità del Paese”. La polizia parla di 50.000 persone in piazza pro-governo, cifra che l’AFP non può verificare.

ALEKSANDAR VUČIĆ PRESIDENTE SERBIA
Nella folla filogovernativa sfilano ministri, dirigenti e persino un gruppo di serbi del Kosovo, giunti a piedi per sostenere Vučić. “Siamo qui per la pace e l’unità”, dice Žarko Milovanović, uno dei marciatori. Il presidente risponde su Instagram con una foto della piazza e la didascalia “Fiero della Serbia”. Sul lato opposto del cordone, i cori si spengono: molti sono lì per Dijana Hrka, alcuni tengono candele, altri striscioni. Nel frattempo, Novak Đokovićrilancia un post sui social: “Il dolore di una madre non deve mai essere oggetto di scherno”.
Dal 2 novembre, il prato del Pionirski Park davanti al Parlamento — ribattezzato “Ćaciland”, in ironico riferimento al culto del leader — si trasforma in un campeggio permanente dei sostenitori di Vučić, tra musica e altoparlanti puntati verso l’area della veglia. Il contrasto tra i canti e il digiuno della madre accende tensioni: video diffusi dai media locali mostrano fumogeni, insulti, spintoni. L’Assemblea è presidiata da reparti antisommossa. La presidente del Parlamento Ana Brnabić accusa i manifestanti di “fascismo barricadero”; gli studenti rispondono che stanno difendendo la dignità del lutto. Hrka non si muove: “Non ho paura”, ripete.
Da mesi, le università serbe interrompono le lezioni; ponti e strade di Belgrado vengono bloccati dai cortei; teatri e librerie chiudono per protesta. Le marce del silenzio attraversano il Paese. Gli organizzatori chiedono “responsabilità piena, indagini indipendenti, documenti aperti”. Il governo parla di “strumentalizzazione politica” e promette che “i colpevoli saranno puniti”. Ma la frattura di fiducia resta aperta come il cratere della stazione di Novi Sad.
Le cronache internazionali, tra gennaio e febbraio 2025, raccontano cortei studenteschi davanti alla Corte costituzionale e blocchi simbolici di 15 minuti. La tesi che unisce le piazze è netta: la tragedia di Novi Sad non è stato un incidente, ma il punto di rottura di un sistema d’impunità costruito sull’opacità dei cantieri pubblici — spesso legati a contratti con società statali cinesi — e sull’uso dei servizi segreti per intimidire gli attivisti.
Sul piano giudiziario, la vicenda avanza a rilento. Dopo il disastro, la Procura avvia audizioni e arresti: a dicembre 2024, tredici indagati finiscono sotto accusa, tra cui Vesić. Nel 2025 il fascicolo rimbalza tra la Procura e la Corte superiore di Novi Sad, che chiede ulteriori indagini. A settembre arriva il nuovo atto d’accusa per “gravi delitti contro la sicurezza pubblica”, articolo 288 del Codice penale. La parola passa ora ai giudici.
Gli avvocati difensori sostengono che la pensilina non fosse parte dei lavori recenti; le Ferrovie Serbe affermano che la struttura crollata non rientrava nel restyling. Ma resta l’ombra di una manutenzione inesistente e dell’uso non autorizzato durante i lavori. La verità, per ora, si perde tra perizie e carteggi, in un labirinto di responsabilità incrociate.
Il raduno filogovernativo ha una regia evidente: autobus, palchi, slogan coordinati. “Difendiamo la stabilità”, ripetono i megafoni. La scelta del Parlamento come palcoscenico non è casuale: lì digiuna la madre, lì gli studenti hanno consegnato dossier e richieste, lì si consuma lo scontro simbolico tra un potere che si dice assediato da una “minoranza rumorosa” e una piazza che si sente la maggioranza morale del Paese.
Vučić respinge le accuse di autoritarismo, ribadisce l’obiettivo dell’adesione all’UE, promette “tolleranza zero per la corruzione”. Ma la piazza non gli crede: denuncia pressioni sui media, uso politico della polizia, legami oscuri con gli imprenditori dei cantieri. E mentre le contromanifestazioni cercano di mostrare forza numerica, i cortei studenteschi restano più vivi, più sinceri, più densi di emozione.
A distinguere questa stagione dalle proteste precedenti è la leadership giovanile. Non partiti, ma collettivi: un mosaico di atenei e licei che ha imposto rituali e linguaggi — i sedici minuti di silenzio, le marce verso Novi Sad, i presìdi davanti alla Corte, i blocchi coordinati. Le loro parole d’ordine sono limpide: “Verità, protezione dei testimoni, processi pubblici, zero interferenze”. Usano Telegram, Instagram, video brevi. Raccontano il dolore e la rabbia con la semplicità del presente.
In questa cornice, la figura di Dijana Hrka resta immobile, fulcro di tutto. È la madre di Stefan, uno dei ragazzi morti sotto la pensilina. È quella che ha guardato il presidente negli occhi e gli ha detto: “Indìci elezioni, libera gli studenti, porta in tribunale i responsabili.” Le sue parole rimbalzano sui social, accompagnate da una frase: “Non mi romperete. Non ho paura.” E mentre dall’altra parte risuonano canti e musiche, il Paese intero trattiene il fiato.
Il crollo di Novi Sad è diventato un trauma collettivo. Ha reso visibile ciò che per anni è rimasto invisibile: il prezzo umano della corruzione. Ha trasformato parole tecniche — collaudo, subappalto, manutenzione — in simboli politici. Ha dato alla generazione studentesca un motivo esistenziale per restare in piazza.
La notte del 5 novembre non aggiunge solo numeri alle statistiche: consegna alla Serbia l’immagine di una nazione divisa. Da una parte, chi teme il caos e si rifugia nell’ordine; dall’altra, chi teme il silenzio e chiede verità. In mezzo, lo Stato — con procure, tribunali, polizia e media — chiamato a dimostrare che la legge può ancora valere più della propaganda.
Quando le piazze si svuotano, restano solo candele bruciate e volantini inzuppati di pioggia. Domani, alle 11:52, qualcuno si fermerà ancora per sedici minuti. La domanda, semplice e devastante, continuerà a risuonare: chi ha permesso che sedici persone morissero sotto una pensilina appena ristrutturata?
Finché quella risposta non arriverà da un tribunale, la Serbia continuerà a guardarsi allo specchio e a vedere — inevitabilmente — due volti.
I numeri sono una contesa nella contesa. La polizia stima quasi 50.000 partecipanti alla piazza pro-governo del 5 novembre; le agenzie internazionali annotano che si tratta di una mobilitazione imponente, ma non necessariamente superiore alle ultime manifestazioni anti-corruzione. Le immagini dei pullman che entrano in città alimentano l’accusa di “mobilitazione organizzata” dall’SNS; i sostenitori del potere replicano con la categoria dell’“entusiasmo popolare”, paragonano i loro raduni a feste popolari, evocano la minaccia di “forze straniere” dietro le proteste. È una battaglia di frame tanto quanto di piazze.
Nelle prossime settimane, tre fattori potrebbero determinare la traiettoria della crisi:
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