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Esteri
06 Novembre 2025 - 18:30
Johann Wadephul
All’alba, nella periferia di Harasta, a est di Damasco, il vento solleva polvere dalle ossa di una città sbriciolata. In un cortile senza tetto, un gruppo di famiglie ricostruisce a mani nude: tre, quattro file di mattoni di fango, poi una pausa, poi ancora. È qui che Johann Wadephul, ministro degli Esteri tedesco, si è fermato più del previsto, lo sguardo fisso su colonne spezzate e finestre come orbite vuote. Quando ha parlato, lo ha fatto piano, scegliendo le parole: “Sarà difficile, per molti, vivere qui in modo dignitoso.” Una frase semplice, che in Germania è diventata una miccia: i siriani arrivati dal 2015 potrebbero davvero tornare? O queste rovine dicono che è ancora troppo presto?

Il regime di Bashar al-Assad è caduto l’8 dicembre 2024, dopo oltre tredici anni di guerra. Da allora, una fase di transizione guidata dal leader ad interim Ahmed al-Sharaa ha riaperto le porte alla diplomazia occidentale. Berlino, come altre capitali europee, ha sospeso l’esame delle nuove domande d’asilo in attesa di capire che volto avrebbe avuto la “nuova Siria”. Poi ha iniziato a ripensare la propria politica: nel paese vivono, lavorano e studiano tra 900 mila e un milione di siriani, molti dei quali ormai radicati nel tessuto sociale tedesco.
Ma la politica, in Germania, è andata più veloce della realtà. Il cancelliere Friedrich Merz ha dichiarato che, con la fine del regime, le ragioni della protezione sarebbero venute meno. Secondo lui, Berlino dovrebbe “incoraggiare” il ritorno, anche con rimpatri coatti per chi rifiutasse. Una linea dura che si è scontrata con la prudenza di Wadephul, appena tornato da Damasco. Ne è nato un cortocircuito politico che spacca la coalizione di governo, ma anche il dibattito pubblico, sospeso tra pragmatismo e paura.
Dopo la caduta del regime, l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati (BAMF) ha congelato oltre 47 mila pratiche d’asilo in attesa di nuove valutazioni. Nei mesi seguenti, la Germania ha inserito la Siria nei programmi di rimpatrio volontario REAG/GARP, consentendo partenze assistite e rimborsate. Un passaggio tecnico solo in apparenza: significa che, per Berlino, il rientro dei siriani è tornato a essere amministrativamente possibile. Parallelamente, l’UNHCR ha iniziato a facilitare rientri volontari, pur ribadendo che senza fondi e sicurezza i ritorni rischiano di trasformarsi in nuovi esodi. Tra gennaio e settembre 2025, oltre 400 mila rifugiati sono tornati in Siria, ma la stessa agenzia parla di rientri “fragili e reversibili”.
Oggi la comunità siriana in Germania è strutturale: nel 2024 sono stati 83.150 i siriani naturalizzati su un totale di quasi 292 mila nuovi cittadini. Altri novecentomila restano titolari di protezione o di altri permessi. Il loro contributo all’economia è tangibile: oltre il 40% lavora, in particolare nella sanità, nella logistica e nella ristorazione. Circa 7.000 medici siriani operano nel sistema sanitario tedesco, un dato che pesa nel dibattito politico. Le revisioni dei titoli di protezione, previste per legge, finora hanno confermato la quasi totalità dei casi: poche le revoche, ma la pressione per accelerare cresce.
La missione di Wadephul in Medio Oriente — Giordania, Siria, Libano, Bahrein — è stata il detonatore. A Damasco ha incontrato al-Sharaa e il ministro degli Esteri Asaad (Hassan) al-Shibani, visitando quartieri devastati come Harasta. Al termine, ha parlato di “interesse legittimo” della Siria a favorire i rientri, ma ha ammesso che le condizioni materiali — case distrutte, acqua scarsa, ospedali chiusi — rendono impossibile un ritorno su larga scala. Parole che si scontrano con la narrativa del cancelliere Merz, deciso a chiudere l’epoca dell’accoglienza e a marcare la distanza dall’AfD sul terreno della sicurezza e del controllo dei flussi. Tra realismo umanitario e muscolarità politica, la Germania sembra oscillare senza trovare un equilibrio.
Sul piano giuridico, la questione ruota intorno alla “cessazione” della protezione internazionale: in teoria, se cessano le cause — guerra, persecuzioni, instabilità — lo status può essere revocato. Ma in pratica la valutazione è sempre individuale: ogni persona deve essere esaminata per rischio personale, accesso a casa, documenti, servizi, mezzi di sostentamento. Per questo gli esperti parlano di un processo lungo, complesso e pericoloso da generalizzare. I dati del 2024 lo confermano: pochissime revoche, moltissime conferme.
Intanto, la Siria che attende i rimpatri è ancora un paese a pezzi. Quartieri fantasma, centrali elettriche intermittenti, acqua razionata, scuole e ospedali ridotti in macerie, mine e ordigni inesplosi nei campi. L’economia si regge sui fondi internazionali e sulla diaspora. L’UNHCR stima circa un milione di rientri dall’estero nei primi nove mesi del 2025, ma molti sono temporanei o parziali: chi torna per recuperare beni, chi per rivedere i parenti. Le ambizioni del nuovo governo sono alte, ma la distanza tra le promesse e la realtà resta abissale.
Dietro i numeri, si gioca una partita più ampia. In Germania vivono fino a un milione di siriani, con tassi di integrazione crescenti e percorsi di cittadinanza ormai consolidati. Le domande sospese restano oltre 47 mila. I rientri, secondo l’UNHCR, oscillano tra 400 mila e un milione, ma servono investimenti per renderli sostenibili. Berlino, nel frattempo, valuta incentivi economici, programmi di ricostruzione, accordi bilaterali per documenti e trasferimenti previdenziali, oltre a canali di monitoraggio con le ONG. Sulla carta, tutto è pronto. Nella realtà, manca ancora la base su cui costruire.
Cinque sono le domande che Berlino non può più eludere. Rientri per chi? Famiglie, vulnerabili, lavoratori, condannati? Volontari o coatti? L’ipotesi di rimpatri forzati aprirebbe un fronte legale e politico con Bruxelles e l’ONU. Quali garanzie offre la nuova Siria? Lo stato di diritto è ancora un cantiere, le minoranze restano esposte. Quanto investire? Senza fondi, la finestra si chiuderà presto. E l’integrazione? Migliaia di siriani sono ormai parte della società tedesca: tornare indietro significherebbe negare un successo collettivo.
A orientare l’opinione pubblica, più dei dossier tecnici, sono state le immagini: Wadephul tra le rovine, Merz davanti alle telecamere, parole e toni che costruiscono due realtà parallele. Il primo parla di dignità, il secondo di controllo. In mezzo, un paese che deve decidere se contare i siriani come cittadini o come ospiti temporanei. La stampa internazionale legge in questa frattura la tensione di un’intera Europa: chi vuole chiudere la parentesi dei rifugiati e chi teme di aprire un nuovo fronte di instabilità. Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia seguono con attenzione: anche loro hanno sospeso o ricalibrato le decisioni sulle pratiche siriane. Ma nessuno, da solo, può cambiare le regole del diritto d’asilo europeo.
Harasta resta lì, polvere e silenzio. Le mani che impastano il fango per rifare i muri sono le stesse che, anni fa, hanno attraversato il mare. Forse torneranno davvero. Ma oggi, in quella città senza tetto, la parola “ritorno” suona ancora come un sogno troppo fragile per diventare politica.
In concreto, che cosa significa “incoraggiare” i rientri? Gli strumenti non mancano:
A smuovere l’opinione pubblica, più dei dossier tecnici, sono state immagini e parole. L’uscita del cancelliere Merz, netta e perentoria, ha creato l’aspettativa di una svolta. La replica implicita di Wadephul — “chi vorrà tornare avrà la nostra comprensione, ma oggi è possibile solo in misura molto limitata” — ha riportato il discorso a terra: alle strade senza asfalto, ai quartieri fantasma, alle fabbriche da riaccendere. Un duello di narrative in cui la stampa internazionale ha colto sia la dimensione strategica (ridurre la pressione migratoria, dare una spinta alla ricostruzionesiriana) sia il rischio di una promessa anticipata.
La Germania non è sola. Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia hanno sospeso o ricalibrato decisioni sulle pratiche siriane creando un fronte europeo di attesa vigile. Ma l’architettura comune dell’asilo impone standard condivisi: nessun paese può ribaltare da solo i presupposti giuridici della protezione riconosciuta negli anni bui del conflitto. Il compromesso passa da linee guida europee, verifiche sul campo e solidarietà finanziaria per accompagnare i rientri realmente possibili.
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