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CUORGNE'
06 Novembre 2025 - 21:12
Colori, forme e rivoluzioni dello sguardo: il viaggio nell’anima delle Avanguardie del Novecento
Nel caldo abbraccio del Salone Trinità di Cuorgnè, mercoledì 5 novembre, i soci dell’Unitre hanno vissuto un pomeriggio ricco di stimoli, emozioni e riflessioni. A guidarli, con la consueta passione e competenza, la docente Tiziana Tiraboschi, che li ha accompagnati in un affascinante viaggio attraverso le avanguardie artistiche del primo Novecento.
Un viaggio non solo storico ma anche poetico, visivo e filosofico: un percorso dentro un secolo che ha cambiato per sempre il modo di intendere l’arte, l’immagine e perfino lo sguardo dell’uomo.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del nuovo secolo, l’Europa vive un fermento senza precedenti. Le città crescono, la tecnica avanza, nascono nuove scienze e nuovi linguaggi: la fotografia, la psicoanalisi, la fiducia nel progresso. Ma accanto all’euforia c’è anche un senso di smarrimento. L’uomo moderno si scopre fragile di fronte alla velocità del cambiamento, e proprio da questa tensione nasce la rivoluzione artistica. Gli artisti sentono l’urgenza di liberarsi dalle regole accademiche, di rompere con la tradizione per raccontare non più ciò che si vede, ma ciò che si sente.

Foto di Osvaldo Marchetti
È in questo contesto – ha spiegato la docente – che nascono le avanguardie storiche, veri laboratori di libertà creativa. Il colore diventa energia autonoma, la forma si fa ritmo, la linea non delimita più ma evoca. Con i Fauves, in Francia, il colore esplode in libertà: Matisse, Derain e Vlaminck dipingono volti e paesaggi con tinte pure, violente, non naturalistiche. Il celebre critico d’arte Louis Vauxcelles, davanti a quei quadri, parlò di una “cage aux fauves”, una “gabbia di belve”. Da quel momento, l’etichetta restò: Fauves, le belve del colore.
Il colore, ha ricordato Tiziana Tiraboschi, diventa emozione, vibrazione spirituale, stato d’animo. Il blu non è più solo cielo: è malinconia. Il rosso non è più fuoco: è passione, forza, desiderio. È l’inizio di una vera rivoluzione dello sguardo.
Dalla Francia alla Germania, il passo è breve ma profondo. Qui nasce l’Espressionismo, forse il movimento più drammatico del secolo. Gli artisti non cercano più la bellezza esteriore, ma l’urgenza interiore, anche a costo di deformare la figura, di spezzare proporzioni e prospettive. Nel gruppo Die Brücke (“Il Ponte”), fondato a Dresda nel 1905 da Kirchner, Heckel e Schmidt-Rottluff, l’arte diventa grido e preghiera insieme: corpi spigolosi, colori violenti, volti dissonanti che riflettono la crisi morale del mondo moderno.
Tiraboschi ha descritto con vividezza le prostitute di Kirchner, corpi rigidi e sguardi smarriti, simboli di una società che si degrada e si traveste. Ma dietro quei volti mascherati, nei contrasti di rosso e verde, blu e ocra, pulsa una tensione vitale, quasi religiosa. “Gli espressionisti – ha ricordato la docente – amano una rappresentazione che è anche interiore, un’immagine dell’anima.”
Poi la scena si sposta sull’eleganza tormentata di Amedeo Modigliani, artista raffinato e tragico, che fonde influenze classiche e africane. Le sue donne dai colli lunghi, dai volti ovali e dagli occhi senza pupille sono icone di silenzio e mistero. “La semplificazione – ha spiegato Tiraboschi – è la sua forma di spiritualità: non serve il dettaglio per dire l’essenziale.” Nelle curve morbide e nelle linee pure, Modigliani cerca la bellezza che unisce corpo e spirito, umano e divino.
E poi arriva il Cubismo. Con Picasso e Braque, la pittura smette di imitare la realtà e comincia a costruirla. Le forme si scompongono, lo spazio si piega, la prospettiva si moltiplica. È l’introduzione della quarta dimensione, il tempo: un oggetto non è più visto da un solo punto di vista, ma da molti contemporaneamente. “L’artista – ha chiarito la docente – non guarda più il mondo da fuori, ma lo vive da dentro, cogliendone la simultaneità e la complessità.”
Nascono così Les Demoiselles d’Avignon, le nature morte di Braque, i collage che mescolano giornali, lettere e frammenti di vita reale. L’arte invade la quotidianità, e la quotidianità entra nell’arte.
In Italia, intanto, esplode il Futurismo. È il 1909, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblica il suo manifesto: il passato va distrutto, la modernità va celebrata. Balla, Boccioni, Carrà, Severini dipingono la velocità, il rumore, la macchina. La realtà non è più ferma ma in corsa: nelle tele, l’uomo e la città si fondono in un vortice di luce e movimento. “Per i Futuristi – ha osservato la docente – la realtà è un intreccio di compenetrazioni. Tutto si fonde con tutto.”
La modernità è ritmo, follia luminosa, esaltazione della vita.
Tutti questi movimenti, diversi eppure uniti da un filo invisibile, condividono la stessa tensione: dare forma all’invisibile. Gli artisti del primo Novecento hanno trasformato il colore e la linea in strumenti dell’anima, rendendo visibile l’emozione, la paura, il sogno. L’arte non è più rappresentazione, ma esperienza.
Nel suo intervento, Tiziana Tiraboschi ha intrecciato con maestria linguaggio storico e linguaggio poetico, offrendo al pubblico non solo spiegazioni ma visioni. Ha mostrato come ogni avanguardia sia stata, in fondo, una rivoluzione del pensiero, un nuovo modo di abitare il mondo.
Alla fine, nel silenzio sospeso del Salone, è rimasta la sensazione di aver viaggiato nel cuore stesso della modernità. Là dove l’arte diventa ricerca, rivelazione, libertà.
E forse, come ha suggerito la docente, quella lezione riguarda anche noi, immersi in un’epoca di immagini e velocità. La bellezza non è nel perfetto, ma nel vivo; non nella forma finita, ma nel gesto che la crea.
Come scriveva Kandinsky, “il colore è un mezzo per esercitare un influsso diretto sull’anima.” È lì che si riconosce l’essenza dell’arte: la capacità di rendere poetico ciò che è reale, e reale ciò che è sogno.
Un sincero ringraziamento a Tiziana Tiraboschi, che con passione, chiarezza e sensibilità ha saputo rendere accessibile un periodo complesso e straordinario dell’arte moderna. Il suo racconto ha ricordato a tutti che l’arte non appartiene solo ai musei, ma alla vita, e che ogni sguardo, se educato alla bellezza, può ancora trasformarsi in una piccola rivoluzione interiore.
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