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05 Novembre 2025 - 22:07
Alessia Pifferi in tribunale
Ventiquattro anni. È la nuova misura della colpa di Alessia Pifferi, la donna che nel luglio del 2022 lasciò morire di stenti la figlia Diana, di appena diciotto mesi, in un appartamento di via Parea, a Milano. La Corte d’Assise d’Appello ha riscritto oggi la condanna, sostituendo l’ergastolo inflitto in primo grado con una pena di ventiquattro anni di carcere.
Una decisione che non cancella l’orrore, ma lo ridimensiona giuridicamente: i giudici hanno concesso alla donna le attenuanti generiche, ritenendole equivalenti all’unica aggravante rimasta, quella del vincolo di parentela. È caduta invece quella dei futili motivi, che in primo grado aveva pesato come un macigno sulla pena massima.
“Sono mamma, è mia figlia pure lei. Non me la sento di commentare”, ha detto con voce rotta Maria Assandri, la madre di Alessia, al termine dell’udienza. Fuori dall’aula, però, la sorella Viviana, parte civile nel processo, ha scosso la testa: “Ventiquattro anni per una cosa così orrenda… Ventiquattro anni è il valore di una bambina di 18 mesi che non c’è più. L’ha lasciata sola a morire mentre lei andava a divertirsi.”
Il contrasto tra le due donne racchiude l’intero senso di questo processo: da una parte, il tentativo di spiegare, di capire, di attenuare; dall’altra, l’impossibilità morale di accettare.
Alessia Pifferi, quarantenne milanese, era già stata giudicata pienamente capace di intendere e di volere sia in primo grado che dopo la nuova perizia psichiatrica disposta dalla Corte d’Appello. Nessun vizio di mente, nessuna infermità tale da ridurre la responsabilità. Ma i periti – lo psichiatra Giacomo Francesco Filippini, la neuropsicologa Nadia Bolognini e il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni – hanno tracciato un profilo complesso: un “disturbo del neurosviluppo” che comporta immaturità affettiva e difficoltà relazionali, pur non compromettendo il funzionamento psicosociale.
È forse su questa diagnosi che i giudici hanno costruito la decisione di oggi. Una forma di comprensione, non di assoluzione. Perché la colpa resta, ma si riconosce una fragilità, un’inadeguatezza strutturale.

La sorella si è costituita parte civile nel processo
La difesa, guidata dall’avvocata Alessia Pontenani, ha insistito su questa linea: “Non è stata la madre più amorevole del mondo, ma lo ha fatto a modo suo, secondo le sue capacità. Se fosse stata aiutata da più persone o seguita dai servizi sociali...” La legale ha parlato di una donna “senza capacità genitoriale, un vaso vuoto, incapace di ragionare”. E ha chiesto che il reato fosse derubricato in morte come conseguenza di abbandono di minore, o che le venisse riconosciuto un vizio parziale di mente.
La Procura Generale, rappresentata dall’avvocata Lucilla Tontodonati, ha invece chiesto la conferma dell’ergastolo, definendo la condotta “raccapricciante” e “difficile da accettare concettualmente, perché omissiva”.
“Una mamma – ha detto la pubblica accusa – che lascia una bambina a soffrire per cinque giorni e mezzo nel caldo di luglio, senza aria condizionata e con le finestre chiuse. Era in condizioni disumane.”
Un’immagine che nessuna sentenza potrà mai cancellare: una culla vuota, un biberon d’acqua, il silenzio in un appartamento chiuso nel pieno dell’estate.
La cronaca di quei giorni è un pugno nello stomaco. Il 19 luglio 2022, Alessia Pifferi chiuse la porta di casa e si allontanò. Disse di andare dal compagno in provincia di Bergamo, e lasciò la figlia sola con un biberon e una bottiglia d’acqua. Sei giorni dopo, tornò a Milano. La piccola Diana era morta.
L’autopsia rivelò disidratazione, denutrizione, ipotermia. In casa, non c’erano segni di violenza. Solo l’assenza.
Pifferi fu arrestata e interrogata: non pianse, dissero gli inquirenti. Spiegò che la bambina “dormiva tanto”, che “pensava ce l’avrebbe fatta”. Ma le indagini mostrarono che non era la prima volta: già in due precedenti occasioni, nel mese di luglio, aveva lasciato la piccola da sola per giorni interi, rientrando a casa come se nulla fosse.
In primo grado, la Corte d’Assise di Milano la giudicò colpevole di omicidio volontario aggravato. Niente attenuanti. Pifferi, dissero allora i giudici, aveva “consapevolmente accettato il rischio della morte della figlia”. Era ergastolo.
Oggi, due anni dopo, la storia si riscrive. Non nelle sue fondamenta, ma nella misura del castigo. Ventiquattro anni, non più la condanna perpetua.
Una decisione che per alcuni è segno di umanità giuridica, per altri di ingiustizia morale.
Le motivazioni della sentenza d’appello arriveranno nei prossimi giorni. Ma il verdetto ha già spaccato opinione pubblica e familiari.
Per la sorella Viviana, “non è stata fatta giustizia”. Per altri, forse, la giustizia ha scelto di distinguere tra crudeltà e incapacità, tra malvagità e vuoto.
La stessa difesa ha lasciato intendere che potrebbe ricorrere in Cassazione, mentre la Procura Generale potrà fare altrettanto chiedendo il ripristino dell’ergastolo.
Resta il dolore. Quello di una bambina morta da sola, quello di una famiglia divisa tra vergogna e lutto, quello di un Paese che ancora cerca di capire come sia potuto accadere.
Perché una madre lasci la figlia morire, non per odio, ma per indifferenza, per superficialità, per un vuoto interiore che neppure la psichiatria sa spiegare del tutto.
C’è chi parla di fallimento individuale, chi di fallimento collettivo.
Le parole dell’avvocata Pontenani riecheggiano come un atto d’accusa contro le istituzioni: “Se fosse stata seguita dai servizi sociali...”. È un refrain già sentito, che attraversa molti processi italiani dove il crimine nasce nel vuoto dell’abbandono sociale, nella povertà educativa, nel disagio non riconosciuto.
Eppure, anche chi invoca la fragilità psicologica non può cancellare il fatto essenziale: una madre che sceglie di partire, lasciando la figlia da sola. Non per un incidente, non per un’improvvisa emergenza, ma per andare altrove, in un altrove che contava di più.
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