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05 Novembre 2025 - 22:02
Maurizio Marrone e Stefano Lo Russo
A Torino, si sa, il potere non muore mai. Si reincarna, cambia giacca, trasloca da un salotto all’altro e, se proprio serve, si traveste da rivoluzione.
E in questa città dove anche i ribelli portano la riga di lato, il nuovo volto della destra meloniana ha un cognome che sa di vecchia aristocrazia industriale: Maurizio Marrone.
Classe 1982, torinese per adozione e ambizione, assessore regionale alle Politiche sociali, ai Beni confiscati e a tutto ciò che passa per i fondi del welfare.
È lui il nome che Giorgia Meloni tiene nel taschino per la conquista di Palazzo Civico.
Perché, diciamocelo, a Torino un po’ di pedigree serve sempre: anche per chi predica il popolo e il cambiamento.
Dietro il volto del politico identitario e cattolicissimo, infatti, si nasconde un padre che con la “gente” ha avuto rapporti soprattutto nei consigli d’amministrazione.
Virgilio Marrone, ex direttore generale della IFI, la cassaforte di casa Agnelli, è stato per anni una delle figure più vicine all’Avvocato Gianni Agnelli.
Un uomo da retroscena, capace di scrivere la storia della Fiat senza mai concedere un’intervista.
Cresciuto alla scuola di Gianluigi Gabetti, di cui fu assistente, lavorò al fianco di Franzo Grande Stevensnell’operazione di equity swap del 2005 che permise alla dinastia di mantenere il controllo del gruppo.
Un “notaio del potere” che muoveva i fili con eleganza sabauda, mentre altri firmavano gli articoli di giornale.
Del figlio, Virgilio ha seguito la carriera politica con un’attenzione da regista silenzioso.
Non si è mai intromesso, anche quando il rampollo alzava un po’ troppo la voce.
Solo una volta, raccontano, il patriarca scese in campo: quando La Stampa, “il giornale di casa”, iniziò a prendere di mira il giovane assessore.
Ne nacque un incontro riservato con Mario Calabresi e Alain Elkann, padre di John.
Non servì alzare la voce: bastò lo sguardo. A Torino, i cognomi pesano più delle mozioni in Consiglio.
E mentre il padre maneggiava le riunioni dell’Accomandita, Maurizio imparava a maneggiare le mozioni della destra.
Laureato in Giurisprudenza, dottore di ricerca in Diritto pubblico, Marrone ha iniziato la scalata nel 2006 come consigliere della Circoscrizione IV, quella di Barriera di Milano, San Donato, Aurora: quartieri popolari dove il degrado è pane quotidiano e le urne si vincono casa per casa.
Poi il passaggio in Consiglio comunale nel 2011, il debutto in Regione Piemonte nel 2014 e la riconferma nel 2019, sempre con la stessa ricetta: toni forti, slogan semplici, telecamere accese.

Nel frattempo, la sua vita privata è finita sui taccuini della politica più di una volta.
Non tanto per scandali, quanto per il matrimonio con Augusta Montaruli, la collega di partito e oggi deputata di Fratelli d’Italia.
I due, un tempo la “coppia d’acciaio” della destra torinese, incarnavano l’immagine perfetta della Generazione Meloni: giovani, belli, ambiziosi, con più fede che dubbi.
Poi la separazione, silenziosa ma definitiva. Lei a Roma, lui rimasto sotto la Mole.
Una divisione tanto civile quanto inevitabile: troppi ego per un solo microfono.
E così, mentre lei oggi siede a Montecitorio, lui si prepara a scalare Torino. In politica, come nei matrimoni, ognuno resta fedele solo a se stesso.
Ma se Marrone è finito sulle prime pagine, non è stato per amore. È stato per il Buono Vesta, la sua creatura politica più chiacchierata.
Un’iniziativa presentata come “rivoluzionaria” — sostegno alle famiglie con figli da 0 a 6 anni — e finita come al solito: in un disastro mediatico.
I fondi regionali, cinque milioni di euro, sono evaporati in meno di trenta minuti.
Un click-day degno del Black Friday, con genitori disperati davanti al computer e 50 mila famiglie escluse.
Le opposizioni l’hanno definita “una lotteria digitale”, una beffa ai danni proprio dei più fragili: chi non ha connessione, chi non ha tempo, chi non ha un commercialista a portata di mano.
E Marrone? Invece di scusarsi, ha risposto da par suo: «Un successo travolgente. Rifinanzieremo la misura».
Traduzione: non è un fallimento, è troppo successo.
Quando il Consiglio regionale ha chiesto spiegazioni, lui non si è nemmeno presentato in aula.
Per la serie: meno presenze, più visibilità.
Il Pd e i Cinque Stelle lo hanno accusato di “prendere in giro 50 mila famiglie”, ma nel linguaggio meloniano l’attacco è una medaglia.
Più lo criticano, più cresce.
Perché Maurizio Marrone è esattamente il prototipo della “Generazione Meloni”: fedele, rumoroso, polarizzante.
Uno che sa infiammare le piazze e far innervosire gli avversari.
Il candidato perfetto per una città stanca ma non ancora pronta a ridere di sé.
E Giorgia Meloni lo sa bene: Torino non si conquista con i sorrisi, ma con le polemiche.
E così Marrone, tra un post su Facebook e una messa della domenica, si prepara a giocare la partita più importante.
Parla alle periferie promettendo ordine e decoro, ma ai salotti racconta di voler “far rinascere la città del lavoro”.
Si muove tra San Salvario e Santa Rita, tra un aperitivo con gli imprenditori e una visita alle associazioni cattoliche, cercando di cucire insieme mondi che non si parlano da anni.
Chi lo conosce bene dice che è già in campagna elettorale: niente di ufficiale, ma il copione è pronto.
Certo, la contraddizione resta: il figlio dell’uomo che serviva l’Avvocato Agnelli, oggi paladino della destra che dice di voler abbattere i “poteri forti”.
Ma a Torino le contraddizioni non scandalizzano: si archiviano con eleganza.
E poi, in fondo, questa città ama i figli dei potenti che si fingono ribelli.
Li elegge, li critica, poi li rilegge.
Così, tra i viali alberati di Crocetta e i balconi scrostati di Barriera, Maurizio Marrone si presenta come il simbolo perfetto della Torino che non cambia mai: quella che parla di rivoluzione ma sogna solo una poltrona più comoda.
E se davvero Giorgia Meloni deciderà di candidarlo, sarà un capolavoro di ironia politica: il figlio del potere mandato a guidare la rivolta contro il potere.
Una favola torinese che comincia sempre allo stesso modo:
c’era una volta l’Avvocato.
E oggi c’è suo… “nipote” politico.
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