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Favori, nomine e concorsi pilotati: la rete di Cuffaro secondo la Procura

Diciotto indagati, tra cui l’ex presidente della Regione, per corruzione e turbativa d’asta

Salvatore Cuffaro, l’ex presidente della Regione siciliana

Salvatore Cuffaro, l’ex presidente della Regione siciliana

Non è un déjà vu, anche se tutto sembra già visto. Salvatore Cuffaro, l’ex presidente della Regione siciliana condannato nel 2011 per favoreggiamento aggravato alla mafia, è di nuovo al centro di un’inchiesta giudiziaria. Questa volta non si parla di patti oscuri con Cosa nostra, ma di un sistema di favori, appalti pilotati e concorsi truccati che, secondo la Procura di Palermo, avrebbe consentito a un gruppo di politici e dirigenti di controllare nomine e posizioni strategiche nella pubblica amministrazione. Un modo raffinato – ma non troppo – di gestire il potere come moneta di scambio, un potere che in Sicilia sembra non conoscere mai la parola “fine”.

La nuova indagine, guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, ha coinvolto diciotto persone, tra politici, funzionari regionali e dirigenti sanitari. Le accuse sono pesanti: associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta. Tutti sono stati convocati per essere ascoltati tra l’11 e il 13 novembre. Al centro dell’inchiesta, ancora una volta, c’è il nome di Cuffaro. Oggi non più “Totò vasa vasa” come ai tempi della Democrazia Cristiana, ma presidente della Nuova Dc, il partito con cui ha appena stretto un’alleanza con la Lega di Matteo Salvini in vista delle politiche del 2027. Un patto politico appena nato, già macchiato dal sospetto di una rete di favori e clientele.

Gli inquirenti sostengono che Cuffaro non abbia mai smesso di esercitare la sua influenza. Anche dopo la condanna, anche dopo gli anni di carcere scontati fino al 2015, avrebbe continuato a muoversi nei meandri della politica regionale, offrendo appoggi, protezioni e contatti. Il suo ruolo, scrivono i magistrati, era quello di “incidere sulle nomine dei dirigenti e dei funzionari pubblici negli apparati di maggior rilevanza”, in particolare nella sanità e nelle opere pubbliche, due settori dove i soldi scorrono e la politica si intreccia con gli affari.

A fianco di Cuffaro, secondo la Procura, c’erano Carmelo Pace, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana e figura di raccordo con le istituzioni; Antonio Abbonato, definito “il tuttofare” del gruppo; e Vito Raso, segretario dell’Assessorato Famiglia e Politiche sociali. Un quartetto che avrebbe creato una struttura “stabile e organizzata”, capace di pilotare concorsi, assegnare appalti e garantire assunzioni in cambio di denaro, incarichi o posti di lavoro. Una rete che, di fatto, metteva in vendita la cosa pubblica.

Salvatore Totò Cuffaro

Gli investigatori descrivono un sistema che funziona come una catena di interessi: chi aveva bisogno di un appoggio per un concorso, un appalto o una nomina, sapeva a chi rivolgersi. Il “canale” era sempre lo stesso, e in cima a quella catena c’era Cuffaro, “che metteva a disposizione del sodalizio i propri rapporti personali e la propria influenza politica”. Un potere silenzioso, costruito negli anni in cui governava la Sicilia e mai davvero dissolto.

Il caso più emblematico riguarda la sanità, terreno fertile per clientele e carriere costruite a tavolino. Tra i nomi citati nell’inchiesta spunta quello di Roberto Colletti, ex commissario straordinario e poi direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Villa Sofia – Cervello di Palermo. Colletti, secondo i magistrati, avrebbe ottenuto la conferma della sua nomina “grazie all’interessamento di Cuffaro e Raso”, accettando in cambio “favori, incarichi e sostegno politico”. Un do ut des classico, che però avrebbe violato ogni principio di imparzialità e trasparenza.

Accanto a lui c’è Antonio Iacono, direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione della stessa azienda, anche lui indagato. Sarebbe stato proprio Iacono a presiedere, nel giugno 2024, la commissione esaminatrice di un concorso per 15 posti a tempo indeterminato da operatore socio-sanitario. Un concorso che – secondo l’accusa – era già scritto prima di cominciare. Le tracce sarebbero state consegnate in anteprima ai candidati “amici” da Raso, che avrebbe fatto da intermediario. I vincitori? Quelli segnalati da Cuffaro. E il premio per la fedeltà: la conferma di Colletti alla direzione generale.

Nelle carte dell’inchiesta c’è un dettaglio che riassume tutto lo spirito di questa storia: “Gli indagati – si legge – si proponevano essi stessi alle imprese per offrire protezione e favori”. Non c’era nemmeno più bisogno di essere corrotti: erano loro a proporsi come garanti del sistema, vendendo relazioni e promesse. Un meccanismo di autocorruzione che spiega meglio di mille dichiarazioni la degenerazione del potere in Sicilia.

Per Cuffaro l’accusa è grave: associazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione. Ma è anche simbolica. Perché la sua figura rappresenta la continuità di un modello politico che la Sicilia sembra non riuscire a spezzare: quello delle relazioni personali, delle fedeltà, dei favori. Non è la mafia di una volta, ma una forma più sottile di potere: la burocrazia asservita alla politica e la politica che si serve della burocrazia per restare viva.

L’ex governatore si è difeso dicendo che “non ha mai commesso nulla di illecito” e che “risponderà serenamente ai magistrati”. Ma il peso delle accuse è tale da far tremare anche il suo nuovo progetto politico, la Nuova Dc, che si proponeva come erede della tradizione moderata siciliana. Il paradosso è che proprio mentre cercava legittimità nazionale – con l’intesa con la Lega – Cuffaro si ritrova di nuovo a fare i conti con il passato. Non un errore di gioventù, ma un ritorno sistemico alle vecchie pratiche di potere.

La Procura, intanto, continua a scavare. Gli interrogatori di novembre serviranno a chiarire i ruoli e a verificare le responsabilità individuali. Ma già adesso emerge un dato: il confine tra politica, sanità e corruzione in Sicilia è sempre più sottile. E l’ombra di Cuffaro, nonostante tutto, continua a pesare su una Regione dove la meritocrazia è spesso un miraggio e dove il potere si trasmette come un’eredità.

Non è solo un’inchiesta giudiziaria, è una radiografia del fallimento di una classe dirigente che da decenni alterna promesse e scandali, moralismi e manovre sottobanco. Un sistema dove chi comanda non lo fa per servizio, ma per rendita; dove le nomine diventano premi, i concorsi favori, le alleanze assicurazioni di sopravvivenza politica.

Alla fine resta la solita domanda, amara e retorica: quante volte ancora dovrà risorgere questo modello di potere prima che la Sicilia decida di seppellirlo per sempre?

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