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Lo Stiletto di Clio
05 Novembre 2025 - 15:00
Il municipio di Caselle Torinese in una fotografia d'epoca
L’anniversario è scivolato via nel disinteresse più totale. E forse era inevitabile. Ciò non toglie che il fatto storico abbia rappresentato centosessant’anni or sono, fra luci e ombre, l’inizio di un lungo cammino verso una gestione municipale più omogenea e uniforme. E, pertanto, un pochino più al passo coi tempi.
Era il 20 marzo 1865 quando fu approvata, pressoché in concomitanza col trasferimento della capitale italiana da Torino a Firenze, la legge numero 2.248 che unificava, fra l’altro, il sistema amministrativo nella penisola. Sul trono sedeva il re Vittorio Emanuele II, mentre il governo era presieduto dal generale Alfonso La Marmora. Voluto da una ristretta minoranza di borghesi e di aristocratici, ignorando ed escludendo le masse, il nuovo Stato univa genti di varia sensibilità civica, divise dalla conformazione geografica dell’Italia e dall’esperienza politica, dai costumi e dalla cultura, dalla lingua e dai dialetti.
La legge del 1865 ricalcava quella del 23 ottobre 1859 in vigore nel Regno di Sardegna. In pratica imponeva un ordinamento organico allo Stato, respingendo ogni altra soluzione politica e giuridica, al fine di non incrinare l’unità appena conseguita e favorire il rigido controllo centrale delle periferie. Il nuovo Stato italiano, secondo il giudizio del socialista Arturo Labriola (1873-1959), si presentava come «un miscuglio di parlamentarismo all’inglese, di militarismo alla prussiana e di accentramento alla francese».
La legge del 1865 lasciò inalterati i tratti distintivi dei comuni, caratterizzati da una modestissima base elettorale, limitate competenze e una forte vigilanza da parte degli organi di nomina governativa che facevano capo al sindaco, ufficiale del governo, e al prefetto, rappresentante del potere esecutivo nella Provincia. A prevalere fu la preoccupazione che gli enti locali, qualora investiti di poteri autonomi, avrebbero indebolito la struttura unitaria faticosamente raggiunta. In altri termini, il sistema limitava la sfera d’azione degli enti territoriali, senza mortificarne del tutto l’autonomia, però sottoponeva a severo controllo l’operato dei loro organi deliberanti ed esecutivi.

Il generale Alfonso La Marmora fu presidente del consiglio dei ministri per meno didue anni, dal settembre 1864 al giugno 1866

Il palazzo civico di Settimo Torinese fra le due guerre mondiali
A ragion veduta, lo storico Ernesto Ragionieri (1926-1975) sosteneva che «tutto il partito della Destra storica, di cui aveva fatto parte il conte Camillo Cavour, al di sopra delle sue sfumature ideali di statalismo e di liberismo e dei dati della sua composizione regionale, fece blocco se non intorno alla concezione, certo intorno alla prassi dello Stato accentrato. Alla mentalità oligarchica dei suoi componenti ben si confaceva l’attitudine di presidiare […] l’unità e la integrità del nuovo Stato».
È il medesimo studioso a rilevare che lo Stato unitario penetrava, di fatto, in tutte le forme di vita associata, controllandone ogni manifestazione: «Il maestro, il segretario comunale, lo stesso sindaco, il medico condotto, per la loro natura contraddittoria di tipici esponenti della vita locale, che però dipendevano in larga misura dal potere centrale per l’esplicazione delle loro funzioni, divenivano il tramite attraverso il quale lo Stato raggiungeva nel modo più esteso gli strati più profondi della società italiana, svolgendo una funzione direttiva, di stimolo della vita sociale e di tendenziale contenimento dei potentati tradizionali, ma insieme anche di freno e di drenaggio di ogni forza sociale potenzialmente alternativa».
Per esemplificare, a Settimo Torinese, piccolo centro rurale in crescita demografica ed economica, pochi erano gli elettori amministrativi e pochissimi si recavano effettivamente alle urne. Nel ventennio dopo l’unificazione d’Italia, la soglia del cinquanta per cento dei votanti fu superata solo sei volte, negli anni 1862 (50,2%), 1863 (56,8%), 1867 (51,1%), 1868 (54,1%), 1875 (59,1%) e 1879 (56,4%). Le più basse affluenze ai seggi si registrarono nel 1866, l’anno della terza guerra d’indipendenza, e nel 1870 (rispettivamente 22,8% e 29,4%); la maggiore si ebbe nel 1882 (62,3%), forse per una sorta di effetto positivo derivante dall’estensione del suffragio politico che il governo di Agostino Depretis, il padre della Sinistra storica, decise quell’anno.
La legge del 1865 confermò l’obbligo di tenere le riunioni del consiglio a porte chiuse, a meno che la maggioranza degli eletti non decidesse altrimenti. Sino alla Grande Guerra, nei consigli furono sempre ben rappresentati i notabili del luogo, generalmente d’idee liberaldemocratiche, ma anche clericali: imprenditori, professionisti, esercenti, proprietari terrieri e agricoltori benestanti. Naturalmente non mancavano i semplici cittadini, senza specifiche competenze né titoli di studio, a cui gli elettori riconoscevano rettitudine e volontà di operare bene nell’interesse collettivo.
È interessante osservare come le elezioni avessero quasi sempre luogo in luglio, sovente dopo la metà del mese, una volta terminate la mietitura e la trebbiatura del grano, in modo che i contadini potessero recarsi a votare senza troppi disagi. Il 27 maggio 1890, Giovanni Antoniotti, sindaco di Settimo, puntualizzò che le consultazioni elettorali si tenevano «nella seconda quindicina di luglio» quando, «per solito», si verificava «una certa sosta» dei «lavori di campagna» e si poteva, «in quel torno, ottenere un maggior concorso alle urne».
Alcuni principi introdotti dalla legge del 1865 influenzeranno profondamente la struttura amministrativa italiana e saranno ripresi in normative più recenti.
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