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Case popolari in affitto ad aziende e ministeri: il piano Marrone divide la Regione Piemonte

Alla Regione Piemonte arriva il disegno di legge 107 per “valorizzare il patrimonio pubblico”: alloggi Atc affidati a enti e aziende per dieci anni, in cambio di ristrutturazioni a spese loro. L’opposizione parla di “Airbnb della povertà” e accusa: “Si tolgono case ai bisognosi per darle ai privilegiati”

Case popolari in affitto ad aziende e ministeri: il piano Marrone divide la Regione Piemonte

L'assessore regionale Maurizio Marrone

C’è un modo tutto piemontese di risolvere i problemi: rinviarli di otto o dieci anni e chiamarlo “piano di valorizzazione”. È più o meno ciò che sta accadendo con il disegno di legge 107, quello con cui l’assessore Maurizio Marrone vuole “recuperare” gli alloggi popolari inutilizzati. Tradotto: concedere a enti pubblici o privati la gestione temporanea di una parte del patrimonio Atc, così da farli ristrutturare a spese di chi li prende in affitto. Poi, fra un decennio, restituirli ai comuni belli rinfrescati. Sulla carta, un capolavoro di efficienza. Nella realtà, una di quelle soluzioni che servono più a raccontare di aver fatto qualcosa che a risolvere davvero un problema.

La discussione è approdata nella commissione congiunta I e II, presieduta da Roberto Ravello e Nadia Conticelli, dove la maggioranza ha difeso l’idea come se si trattasse di un colpo di genio, e l’opposizione l’ha smontata pezzo per pezzo. Secondo Marrone, si tratta di “uno strumento utile per ridare vita a case oggi inutilizzate per mancanza di fondi”. “Ogni volta che un ente avrà bisogno di alloggi per il proprio personale, potrà contribuire con le proprie risorse a rimettere a posto le case popolari piemontesi, che poi diventeranno finalmente assegnabili”, ha spiegato. Una promessa che suona bene, ma nasconde un piccolo dettaglio: quelle case, nel frattempo, non andranno a chi è in lista d’attesa da anni.

Il fronte delle opposizioni — guidato da Nadia Conticelli, Monica Canalis, Gianna Pentenero e Valentina Cera — non ha usato giri di parole: “Ci sono oltre 5.000 alloggi non assegnabili su 52.000, e la Regione invece di investirci soldi veri li presta a terzi. La priorità dovrebbe essere un piano casa serio, non un maquillage legislativo”. Perché il punto è proprio questo: mentre migliaia di famiglie aspettano un tetto, la Regione immagina una specie di “Airbnb pubblico” dove le case popolari vengono affittate temporaneamente ad altri enti. L’opposizione teme che il provvedimento sottragga alloggi già assegnabili dal patrimonio di edilizia pubblica, con benefici “visibili” solo fra cinque, otto o dieci anni. E, nel frattempo, i poveri possono continuare ad aspettare.

Torino

Valentina Cera, di Alleanza Verdi Sinistra, è stata netta: “Non si può ipotizzare un uso diverso del patrimonio popolare rispetto alla sua finalità sociale”. Gianna Pentenero e Monica Canalis hanno ribadito la necessità di “affrontare la carenza di case popolari investendo in manutenzione ordinaria e straordinaria, non sottraendo alloggi già assegnabili”. Eppure la Regione insiste: la misura, spiegano, non toglierà nulla a nessuno. Anzi, sarà “a costo zero”. Il che, in politica, significa quasi sempre “a carico di qualcun altro”.

In mezzo alla discussione, il Comune di Torino ha deciso di rompere il coro, bocciando la legge e presentando un testo emendato. L’assessore Jacopo Rosatelli lo ha detto senza troppi fronzoli: “Gli appartamenti assegnabili vanno a chi ne ha diritto, punto. Non si possono ridurre i posti disponibili per la povera gente. La Regione piuttosto chieda risorse al governo del proprio colore politico, invece di inventarsi scorciatoie”. Un invito che suona come uno schiaffo all’assessore Marrone, il quale, dal canto suo, si è affrettato a ricordare il “parere favorevole” di Anci e Upi. Insomma, quando mancano i numeri, si sventolano i pareri.

E proprio nel famigerato comma 3 della legge, quello che permette di concedere anche alloggi in buono stato, si nasconde la miccia della polemica: aprire alla gestione di enti privati o aziende, anche quando quelle case potrebbero andare a famiglie fragili in graduatoria, rischia di trasformare un diritto sociale in un meccanismo d’affitto agevolato per pochi privilegiati. A difendere la riforma, naturalmente, si sono lanciati in coro i rappresentanti di Fratelli d’Italia. Carlo Riva Vercellotti, capogruppo, ha definito il piano “un modo per risanare gli alloggi, ridurre gli sprechi e garantire più sicurezza nei quartieri, ma a costo zero per la Regione”. E la relatrice Alessandra Binzoni ha rincarato la dose: “Ridurremo gli alloggi vuoti e le occupazioni abusive, generando un circolo virtuoso che porterà più case alle famiglie in attesa”.

Un sogno ad occhi aperti, se non fosse che nel frattempo, come ricordano i sindacati degli inquilini, mancano i soldi persino per la manutenzione ordinaria, e le occupazioni abusive nascono proprio dal disagio e dall’abbandono dei quartieri. Ma la maggioranza si è detta soddisfatta: “più case, meno sprechi, più sicurezza”.

La solita triade perfetta da conferenza stampa, peccato che i numeri restino lì, immobili come le impalcature dei cantieri fantasma: migliaia di alloggi inutilizzabili, zero fondi nuovi e tempi di recupero da prefazione di romanzo distopico.

Fuori dal Palazzo, invece, la realtà è un’altra. Nei quartieri di edilizia popolare non servono “strumenti di valorizzazione”, ma idraulici, elettricisti e muratori. Servono soldi veri, non commi e commette. Servono piani di manutenzione, non piani di comunicazione. E soprattutto, serve la volontà di affrontare un problema che è sociale prima ancora che edilizio. Perché l’emergenza abitativa non si risolve regalando alloggi a enti o aziende per un decennio, ma restituendo dignità a chi aspetta da anni.

Le famiglie in graduatoria non hanno bisogno di aspettare otto anni per vedersi “restituito” un alloggio rimesso a nuovo: hanno bisogno di una chiave, oggi, non nel 2035. Ma evidentemente, nel Piemonte della giunta Cirio, anche l’attesa diventa virtù civica. 

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