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Lo Stiletto di Clio
30 Ottobre 2025 - 09:01
Una battuta di caccia al lupo (incisione del XIX secolo)
I lupi sono fra noi. Da San Sebastiano Po a Montanaro, da Lauriano a Vauda Canavese, da Giaveno a Verolengo e Frossasco, le segnalazioni sono in costante crescita. La Coldiretti di Torino informa che il temibile canide non disdegna di assalire animali «forti e resistenti, come mucche, cavalli e asini». «In questo periodo dell’anno, i lupi – si legge in un comunicato dello scorso 25 ottobre – attaccano le prede in modo indiscriminato per insegnare le tecniche di caccia ai nuovi nati primaverili».
L’8 maggio 2025 il Parlamento europeo ha declassato il livello di protezione dell’animale. In pratica, il lupo continua a essere tutelato, ma le autorità nazionali possono assumere misure più flessibili – fra cui i piani di abbattimento – per gestire i branchi.
Le fonti d’archivio attestano che le comunità piemontesi adottavano, nei secoli scorsi, drastici provvedimenti contro tutti gli animali nocivi, ricorrendo per lo più a battute di caccia, trappole, tagliole e bocconi avvelenati. In primo luogo si cercava d’intossicare le fiere con esche velenose a base di noce vomica, la «Strychnos nux-vomica» che contiene la stricnina. Nel suo «Dizionario piemontese» (Carmagnola, 1830), il sacerdote Casimiro Zalli, nato a Chieri, osserva che il «frutto o seme duro» della noce vomica serviva «di veleno ai lupi ed animali minori, eccitandoli a vomiti incessanti». Purtroppo non è verificabile la voce secondo cui a Mappano, in un edificio di strada Goretta conosciuto quale «ciabòt dij luv» si preparavano i bocconi avvelenati per le fiere.

Una tagliola per lupi

IL lupo, litografia ottocentesca
Allo scopo di sterminare i lupi, il medico e naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605) suggeriva di unire, in parti uguali, «lupariam herbam» (la velenosa erba luparia che cresce nei pascoli e nei boschi), arsenico citrino (trisolfuro di arsenico) e foglie di tasso, una conifera il cui fogliame è molto tossico. In alternativa si potevano mescolare due once di luparia, un’oncia di foglie di tasso, un’oncia e mezzo di arsenico citrino, corteccia di faggio, vetro, tre once di mandorle dolci, calce viva e miele «quantum sufficit», preparando polpette della grandezza di una nocciola, da ungersi di lardo. Entrambe le formule figurano anche nel trattato sulla «magia naturale» del filosofo, scienziato e alchimista napoletano Giambattista Della Porta (1535-1615).
A dire il vero, l’avvelenamento del lupo poneva non pochi problemi. Benché voracissimo, infatti, l’animale è molto diffidente: pertanto, confezionando le esche, occorreva adottare infinite cautele, tanto più che non tutti i tossici erano egualmente efficaci. Alcuni (l’arsenico, ad esempio) provocavano nient’altro che il vomito. Pure il vetro pestato nel mortaio aveva effetti incerti. Sembra che soltanto la noce vomica fosse sicura.
Nel diciottesimo secolo, un po’ in tutto il Torinese, è particolarmente documentato il ricorso alla carne bovina per uccidere le fiere. Gli esempi sono innumerevoli. Una vacca fu acquistata nel 1732 dalla comunità di Pino per «attossicare […] li luppi». Un manifesto che invitava a consegnare le «turgie» (cioè le mucche divenute infeconde) «per servire all’avvelenamento dei lupi» fu affisso nel 1733 a San Maurizio Canavese e nei dintorni, come riferisce il corografo Antonino Bertolotti (1834-1893).
Il 30 dicembre 1737 il conte Francesco Gerolamo Taparello di Genola, «governatore della Veneria Reale, gran “veneur” e gran falconiere per la medesima», decretò che la comunità di Settimo Torinese fornisse due vacche «giore» (ossia vecchie e sfiancate) da avvelenarsi in base agli ordini del guardacaccia inviato «a tal effetto […] con il tossico espressamente». La decisione traeva motivo dalla volontà del re Carlo Emanuele III «di solevare le città, terre e luoghi» in seguito al «gran danno» derivato alle campagne sia «per il distruggimento degli armenti» sia «per esser spesso intaccate l’istesse persone». Al guardacaccia, quale ricompensa «per sua fatica e spesa», si sarebbero concesse le pelli delle due vacche.
Nell’archivio comunale di San Maurizio Canavese esisterebbero ricevute di pagamento per l’acquisto di vacche sterili negli anni 1766, 1778 e 1784. Solo verso la fine del diciottesimo secolo, la città di Torino fu dispensata dal fornire, ogni anno, dieci vacche per le esche.
Le battute di caccia al lupo erano una tradizione consolidata in Piemonte. Nel 1726 venti uomini di Gassinoparteciparono a una battuta dalle parti di Volpiano. Nel 1768, poiché un lupo si aggirava nei pressi di Barone dove aveva aggredito una ragazza, gli abitanti di Caluso organizzarono una pattuglia per catturarlo.
Il 24 gennaio 1806 il prefetto d’Ivrea, essendo al corrente che i dintorni di Feletto risultavano infestati dai lupi, ordinò una battuta di caccia per il 1° febbraio successivo tanto nelle vicinanze del luogo quanto a Rivarolo, Favria e Oglianico. I sindaci avrebbero dovuto trovarsi alle ore sei del mattino presso il municipio di Rivarolo, ognuno con dieci cacciatori armati e con eventuali cani idonei allo scopo. Ogni sindaco, inoltre, doveva farsi accompagnare da venti uomini «abili e conoscitori dei luoghi in cui perlustrare i boschi» e spingere le fiere verso i cacciatori.
Tuttavia il celebre naturalista e medico Michele Buniva (1761-1834) mostrava serie perplessità sul modo di condurre le battute, «mezzo per sua natura eccellente». «Comunemente – scriveva nel 1816 – le battute le più regolari eseguite da gente di campagna, timida, non agguerrita, mal armata, non avvezza al fucile, non producono [...] che accidenti più o meno malaugurati tra i cacciatori, i quali tiran alcune volte gli uni sugli altri; ovveramente siffatte malintese battute operano soltanto lo traslocamento degli animali cacciati da un cantone ad un altro».
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