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29 Ottobre 2025 - 15:08
foto Gazeta do Povo
L’odore di plastica bruciata resta sospeso sulla Linha Amarela, una delle arterie di Rio de Janeiro. Autobus sequestrati e dati alle fiamme a formare barricate improvvisate; in cielo, piccoli quadricotteri che rilasciano ordigni artigianali; a terra, reparti d’assalto che avanzano nei vicoli. È l’immagine che martedì 28 ottobre 2025 consegna alla città la sua giornata più sanguinosa di sempre: almeno 64 morti, tra cui quattro poliziotti, in una vasta operazione di polizia nei Complexo da Penha e Complexo do Alemão, nella periferia nord. Secondo le autorità, l’obiettivo era colpire l’espansione del Comando Vermelho; secondo molti residenti e difensori dei diritti, è l’ennesimo capitolo di una guerra che si consuma soprattutto nei corpi dei più poveri.
All’alba del 28 ottobre, circa 2.500 appartenenti alle forze dell’ordine statali – reparti della Polícia Civil, della Polícia Militar, unità speciali come BOPE e CORE, con elicotteri, blindati e droni – hanno fatto irruzione nei due agglomerati di favelas di Penha e Alemão. Il governatore dello Stato, Cláudio Castro, ha descritto l’operazione come “la più grande” mai condotta contro il Comando Vermelho e ha parlato di 60 “criminali neutralizzati”, 81 arresti e di un sequestro di decine di fucili e “oltre mezza tonnellata di droga”. Nel pomeriggio e in serata, gruppi armati avrebbero reagito erigendo barricate e incendiando veicoli in diverse zone della metropoli.
Nel corso degli scontri sono rimasti uccisi quattro agenti. Le autorità parlano di un’azione pianificata da tempo – “oltre un anno di indagini” – e finalizzata alla cattura di capi e luogotenenti della fazione, tra cui l’obiettivo indicato come Edgar “Doca” Alves de Andrade, ritenuto leader nel Complexo da Penha. La reazione delle organizzazioni criminali ha incluso, secondo la polizia e i video diffusi sui social, l’uso di droni per sganciare esplosivi sui reparti: un salto di qualità nelle tattiche già visto sporadicamente in passato, ma mai su questa scala in una grande città brasiliana.

La violenza ha subito avuto ricadute sulla vita quotidiana. Il municipio ha alzato il livello di allerta a “stadio 2” per l’ordine pubblico; decine di scuole hanno sospeso le lezioni e l’Universidade Federal do Rio de Janeiro ha annullato le attività serali, invitando chi era in campus a mettersi al riparo. Le principali vie d’accesso al nord della città hanno registrato interdizioni e congestione. Le immagini dei bus disposti di traverso e incendiati sono rimbalzate tra Méier, Grajaú-Jacarepaguá e altre zone della capitale fluminense.
Nelle prime ore, i numeri comunicati dallo Stato sono cambiati più volte. In serata, il quadro condiviso da Palácio Guanabara – la sede del governo fluminense – ha consolidato il bilancio in almeno 64 morti e 81 arresti; tra i sequestri, oltre 75–93 fucili a seconda dei conteggi aggiornati, e “un’ingente quantità di droga”. Il ministro della Giustizia federale, Ricardo Lewandowski, ha riconosciuto la presenza di civili tra i deceduti e ha sollevato dubbi su coordinamento e pianificazione: “Operazione estremamente violenta; il contrasto al crimine organizzato richiede pianificazione”.
Sul fronte dei diritti umani, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani si è detto “inorridito” chiedendo indagini “rapide ed efficaci”. Human Rights Watch ha parlato di “tragedia enorme” e invocato inchieste autonome della Procura su ogni morte. Il lessico usato dal governatore – “narcoterrorismo”, “stato in guerra” – ha diviso l’opinione pubblica: per i critici, alimenta un paradigma bellico inefficace e regressivo; per i sostenitori, fotografa la potenza di fuoco dei gruppi armati.
Se c’è qualcosa che Rio insegna, è che la sicurezza non può vivere solo di incursioni: ha bisogno di istituzioni che restino, di politiche che ricuciono, di giustizia che accerti responsabilità senza scorciatoie. Le famiglie in attesa davanti all’ospedale Getúlio Vargas e le classi vuote nelle scuole di Penha e Alemão ricordano che ogni bilancio – anche quando porta il peso di armi sequestrate e capi in fuga – si misura sul terreno della vita ordinaria: la libertà di uscire di casa, di prendere un autobus, di mandare un figlio a lezione senza paura. Ed è lì che, alla fine, si capirà se l’operazione del 28 ottobre ha reso Rio più sicura o solo più ferita.
Quella del 28 ottobre 2025 supera – più che raddoppiandolo – il bilancio della famigerata operazione di Jacarezinho del 2021 (28 morti), fino a ieri la più letale della storia di Rio. Proprio dopo Jacarezinho, la giurisprudenza della Corte suprema federale nella causa ADPF 635 (la cosiddetta “ADPF das Favelas”) ha consolidato vincoli più stringenti: uso di body–cam, preavviso al Ministero Pubblico, protocolli per tutelare scuole e ospedali durante le operazioni, oltre alla raccomandazione – in epoca pandemica – di limitare le incursioni ai casi “assolutamente eccezionali”. Molti ricercatori e ONG riconducono a quelle misure una riduzione della letalità nei periodi di applicazione più rigorosa, pur con oscillazioni e contenziosi. La domanda che ora si impone è se – e come – tali protocolli siano stati pienamente rispettati in una manovra di scala eccezionale.
Il Comando Vermelho è una delle due principali organizzazioni criminali del Brasile – l’altra è il Primeiro Comando da Capital (PCC) – con base storica a Rio e interessi nel traffico di cocaina e armi, nell’estorsione di servizi e nella gestione coercitiva di parti dell’economia informale. Nel gergo degli apparati di sicurezza, la parola chiave è “territorio”: controllare passaggi, colline e snodi significa garantire flussi di rendita e protezione armata in quartieri dove lo Stato è spesso percepito come assente o ostile. Da qui la strategia – dichiarata – del governo fluminense: interrompere l’espansione territoriale del CV nei complessi del nord.
L’operazione arriva a ridosso di eventi internazionali a forte impatto mediatico, con Rio vetrina in vista dei momenti preparatori di COP30 in Brasile: un dettaglio che, ricordano molti osservatori, in passato ha coinciso con fasi di intensificazione delle operazioni di sicurezza. Sul piano politico, la violenza mette la sicurezza pubblica al centro dello scontro tra il governo statale guidato da Cláudio Castro e l’esecutivo federale di Luiz Inácio Lula da Silva: il governatore chiede più supporto federale e parla di narco–terrorismo; da Brasília si sottolinea la necessità di coordinamento e di strategie di lungo periodo oltre la logica della “mega–operazione”.
Nei vicoli di Vila Cruzeiro e negli altri insediamenti del Complexo da Penha, la giornata è stata scandita da scariche di arma automatica e dal suono degli elicotteri. Le scuole chiuse, i bus deviati o fermi, gli ambulatori bloccati, l’invito a restare in casa: per gran parte dei residenti il vissuto è quello di una città sotto assedio. Testimonianze raccolte sul posto fanno riferimento a arresti di massa – uomini giovani, a torso nudo, seduti sul marciapiede – e alla “prima volta” in cui molti dicono di aver visto droni con ordigni “cadere nel cuore della comunità”. Un’innovazione tattica che, anche se non nuova in teatri di conflitto, solleva interrogativi sulla sicurezza dei civili in aree densamente abitate.
Secondo dati accademici citati dalla stampa brasiliana, tra 2007 e 2021 nella Regione Metropolitana di Rio si sono contate quasi 18mila operazioni di polizia in favelas; 593 di queste sono sfociate in stragi (definite come episodi con almeno tre morti), per un totale di oltre 2.300 deceduti. Il 28 ottobre 2025 non solo stabilisce un record per letalità, ma rilancia il dibattito su un modello che da anni alterna fasi di occupazione a ritiri e “vuoti” poi colmati dalle fazioni. Proprio per spezzare questo ciclo, diverse voci – dentro e fuori le istituzioni – chiedono presenza continuativa dello Stato in termini di politiche sociali, servizi, lavoro e istruzione, oltre che repressione penale mirata ai vertici e alle reti finanziarie del crimine organizzato.
Nel maggio 2021, a Jacarezinho, 28 persone vennero uccise in un blitz di nove ore. Allora, come oggi, si parlò di “legittimità” da un lato e di “massacro” dall’altro, con accuse di alterazione delle scene del crimine e indagini lacunose. Quell’episodio diventò il simbolo di una contesa che non si chiuse, ma si spostò sul terreno giudiziario e politico. La giornata del 28 ottobre 2025 rimette tutto sul tavolo – con numeri ancora più pesanti – e ripropone la stessa domanda: quale modello di sicurezza può ridurre davvero la letalità senza consegnare i quartieri a nuove forme di dominazione? Gli strumenti giuridici esistono; i numeri dicono che, applicati con coerenza, possono incidere. Ma richiedono tempo, risorse e una regia che vada oltre la vetrina della “grande operazione”.
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